L'ISOLA DI ARTURO. 2
II PARTE – UN POMERIGGIO D’INVERNO
Tutto cambia il giorno in cui Wilhelm fa ritorno a Procida in compagnia di Nunziata, la sua seconda giovanissima moglie, che entra a far parte della famiglia. Ella varca la soglia della “Casa dei guaglioni”, l'abitazione dei Gerace, chiamata così perché il suo precedente proprietario, il vecchio misogino Romeo l'Amalfitano, ne proibiva l'ingresso a tutte le donne che egli riteneva esseri degni di ogni disprezzo.
Punti forti della narrazione
Eravamo d’inverno… L’aspetto insolito, grigio e misterioso, dell’isola sembra preludere a qualcosa di arcano, a uno straordinario cambiamento nella vita di Arturo.
Lui, quattordicenne, è combattuto tra l’impazienza e la ripugnanza per l’arrivo di quella che W.G. ha definito la sua nuova madre.
Essa per me significava soltanto: il Dovere. Mio padre l’aveva scelta, e io non dovevo giudicarla.
Questo sentimento ostile, trattenuto solo dal rispetto per la volontà paterna, incomincia a sgretolarsi e a cambiare subito dopo l’arrivo della sposa.
Si può notare la straordinaria abilità descrittiva di Elsa Morante, che dipinge, per velature successive, come in un acquerello, l’aspetto e il carattere della ragazza, e l’effetto che questi producono nel protagonista, pur senza menzionarli in modo diretto.
L’autrice dedica molto spazio alla descrizione di lei, nel corso di una narrazione che riguarda un solo giorno, come per sottolineare l’insistenza con cui Arturo, ignaro di femmine, la guarda, sempre più da vicino.
Il ragazzo sospetta da subito che Nunziata non sia molto più grande di lui, benché abbia un corpo – e a volte anche i modi – di donna fatta, che conosce la vita (o pretende di conoscerla).
Questo carattere ibrido, di donna bambina, da un lato la rende goffa, poco aggraziata, dall’altro ha un misterioso fascino.
…Imbacuccata nel suo sciallone nero, con quegli occhioni, essa pareva un gufo che non vede mai il sole… si sfilò lai piedi le scarpette dai tacchi alti… i suoi piedi erano piccoli, ma di forma tozza e poco elegante; e le sue gambe, dalla caviglia piuttosto grossa, avevano una rozzezza quasi ancora infantile.
Il padre, che pure l’ha scelta, la tratta con bruschezza, come una ragazzetta sciocca e poco attraente.
A un tratto, però, scioglie la sua acconciatura, rivelando una gran massa di riccioli bruni.
Tanto si vede lo stesso che non sei una femmena grande. Vieni qua, voglio rifarti io bella, come piaci a me.
La sua capigliatura pareva cresciuta a capriccio, secondo la fantasia… Per Arturo era un divertimento osservare tutti quei riccetti e boccoli.
Ma sono gli occhi, soprattutto, a incantarlo.
Nella penombra della carrozza, il suo volto, con quegli occhioni aperti, sembrava ingioiellato.
Arturo scopre in quello sguardo una straordinaria somiglianza con quello della cagna Immacolatella. Non lo dice, ma la scoperta non può che fargli piacere e suscitare la sua tenerezza.
Stava là a riguardarmi, con quei suoi occhi pieni di confidenza e di antichità puerile, che mi ricordavano, nel tempo stesso, le notti stellate dell’isola e Immacolatella.
Le parti descrittive s’intrecciano mirabilmente con i dialoghi e con i fatti di quella giornata: l’arrivo, il percorso in carrozza, l’ingresso nella casa dei guaglioni, la salita alle camere di sopra, la sistemazione del letto e dei bagagli… Azioni semplici, quasi scontate, ma ciascuna di esse ci rivela un aspetto di chi le compie: l’arroganza di Wilhelm, la paura che Nunziata ha di lui, ma anche di stare sola, in una grande casa sconosciuta, dopo aver sempre vissuto con la sua famiglia in un basso di Napoli, aperto sulla strada.
Quando W.G. li manda via per riposare, i due ragazzi restano soli e parlano di svariati argomenti, dalla religione, a Napoli, alla grandezza dei condottieri. Discutono sulla possibilità che la casa sia infestata dai fantasmi, si confrontano sulla paura della morte…
In breve, tra loro si stabilisce una grande confidenza, mai provata da Arturo prima di allora.
Ti conosco… Tale frase mi venne naturale, e a dirla mi accorsi… che era proprio vero… (p.104)
Il penultimo capitolo, A cena, è venato di una dolcezza che sembra contagiare anche il padre.
Quella sera, il vino si accordò al suo umore spensierato, rendendolo più loquace e fantastico. La durezza dei suoi sguardi cedeva, a ogni minuto, a una specie di grazioso compiacimento che pareva invaghirsi di qualunque cosa vedesse, anche di un avanzo di pane o di un bicchiere.
La finezza della narratrice sta nel dosare le sfumature: in questa scena domestica, Wilhelm non è dipinto come un bruto. Certo è arrogante, ma allegro e scherzoso e sembra inoffensivo: tormenta per gioco la sposina, la quale, benché intimidita da lui e sempre attenta a non dispiacergli, ribatte con coraggio alle provocazioni.
Eh, chi ci crede alle parole di quello là, che andava dicendo che le donne sono tutte quante brutte!
A proposito della bruttezza delle donne, W.G. imita l’Amalfitano, e suscita l’ilarità dei due ragazzi. Quindi li chiama in causa, costringendoli a dire cosa pensano l’uno dell’altra. Entrambi lasciano trapelare un giudizio positivo, ma il padre conferma solo quello di Nunziata su Arturo.
È vero, è un bel ragazzino: eh, non per niente è figlio mio!
Io facevo finta di nulla… Egli per provocarmi mi dette un calcio leggero sotto alla tavola e seguitava a ridere quasi dolcemente, guardandomi; e allora, anch’io mi misi a ridere, insieme a lui.
La conclusione di questa scena è pura poesia: nella sua immaginazione, Arturo paragona l’isola a una foresta toccata dall’incanto.
Noi eravamo i signori della foresta: e questa cucina accesa nella notte era la nostra tana meravigliosa.
Ma la cena è finita: ormai, secondo il padre, è tempo di salire in camera con la sposa.
Tu sei la signora Gerace, ricordati! e adesso sta per incominciare la nostra prima notte di nozze.
…(Lei) tremava visibilmente, e pareva proprio, in quei suoi grandi capelli, una bestiola selvatica dalla pelliccia nera, presa nella tagliola a tradimento.
L’uomo, allora, spinge lo scherzo sulla sua paura oltre il limite, diventa minaccioso.
La ragazza non può ribellarsi e lo segue, ma uscendo dalla stanza volge il capo verso Arturo.
…preso da uno strano sentimento d’odio e di rabbia, io distolsi subito le pupille da lei.
…Raggiunsi la mia camera quasi di corsa: provavo d’un tratto un sentimento incomprensibile e acuto di ricevere da qualcuno (che non sapevo tuttavia riconoscere) un’offesa impossibile a vendicarsi, disumana.
Arturo si sente escluso e inadeguato: …dovevo aspettare ancora molte stagioni, avanti di essere un uomo.
Senza saperlo, egli soffre già di gelosia.
Mentre si infila sotto le coperte, gli giunge un grido di lei: tenero, stranamente feroce, e puerile.