CATERINETTA
Anna apparteneva a quel periodo lontano in cui si riteneva che ragazzi e ragazze, durante le vacanze scolastiche (finita la quinta elementare), dovessero avere un impegno, un lavoro anche non retribuito: non si doveva vagabondare inoperosi per i cortili del quartiere.
Fu così che, nell'estate dei suoi dodici anni, sua madre le trovò un’occupazione presso una piccola sartoria vicina a casa, dove tre giovani donne lavoravano in un appartamento.
Il primo giorno, quando si presentò, si sentiva un nodo allo stomaco: non aveva mai preso un ago in mano e temeva di fare brutta figura. Nadia, la “maestra”, Gina e Maria, le due aiutanti, l'accolsero con sorrisi e parole di incoraggiamento, il nodo si sciolse.
La sarta la volle subito accanto a sé – avrebbe dovuto imparare guardando lei – mentre su un grande tavolo si accingeva a ritagliare un abito da una magnifica pezza di stoffa, Fresco lana. Con la mano accarezzò il tessuto per verificare la direzione del pelo, lo girò al rovescio, lo piegò in doppio e, con un gesso bianco, aiutandosi con un metro e una riga, delineò la forma dell'abito con le misure della cliente.
Poi fece sedere Anna e le mise sulle ginocchia una tavola rettangolare larga un metro e mezzo e profonda sessanta centimetri, sagomata su di un lato per poterla appoggiare al ventre. Vi depose l'abito tagliato e le insegnò, con l'ago infilato con il filo da imbastire, come passare su tutti i segni bianchi facendo il punto molle – due punti corti, uno lungo e molto lento. A lavoro ultimato, aperto il tessuto e tagliate le imbastiture, lei e le lavoranti avrebbero unito le varie parti e l'abito sarebbe stato pronto per la prima prova.
Le clienti della sartoria erano quasi sempre giovani donne eleganti, profumatissime, pettinate come dive del cinema, labbra rosse e sigaretta in mano. Anna ne era ammaliata, per lei rappresentavano la bellezza, ma anche la libertà dai lavori domestici: non riusciva a immaginarle mentre facevano il bucato. Mentre assisteva alle prove, tenendo la scatola degli spilli che la “maestra” usava per ritoccare, modellare gli abiti dando loro la forma desiderata, ascoltava con vivo interesse tutte le chiacchiere, che poi riportava a casa ricamandoci su.
Nadia stava diventando una sarta molto conosciuta, per la sua capacità di mimetizzare i lievi difetti fisici delle sue clienti, in modo da far cadere a piombo, in maniera aggraziata, tutti gli indumenti che uscivano dalla sua sartoria.
Dal punto molle Anna passò al sopraggitto, che serviva a non far sfilare il tessuto tagliato; i punti dovevano essere tutti lunghi uguali, alla medesima distanza, come tanti soldatini in riga. Se non erano ben fatti, si dovevano disfare e rifare. E poi iniziò a fermare gli orli con i sottopunti; erano di tre tipi, in base al tipo di tessuto, e dovevano essere piccoli, invisibili. Nadia era molto precisa.
Poi venne la volta di attaccare i bottoni automatici, fissare gli occhielli di stoffa, impunturare l'imbottitura delle giacche. Mentre imparava questi e altri lavori, Anna si sentiva “grande” fra quelle donne che non la trattavano da bambina.
Lavoravano in un cortile chiuso per tre parti dalle ali di due palazzi; la quarta parte, con una scala costruita dai tedeschi in tempo di guerra per raggiungere le ville abitate dagli ufficiali, dava su una strada alberata.
Le sarte stavano sedute con un piede appoggiato a uno sgabello, per avere una gamba più alta da usare come appoggio per cucire.
Mentre lavoravano, a volte cantavano in coro, oppure spettegolavano, criticavano i genitori.
Il lunedì, Maria e Gina commentavano i fotoromanzi letti sul settimanale “Bolero”: i vari amori, i tradimenti, gli abiti delle protagoniste... A questi commenti, Anna non prestava attenzione, perché l'insegnante di lettere aveva spiegato che Bolero e altri simili giornaletti erano per servette, e lei non si sentiva tale.
Un giorno, udì Gina confidare sottovoce a Maria: “Ieri sera, al cinema , il mio ragazzo ha iniziato a giocherellare con il mio reggicalze che si intravedeva sotto la gonna tesa, e quando gli ho spostato la mano, con il braccio destro mi ha circondato le spalle e ha iniziato a darmi dei piccoli baci sul collo… sai che ti dico? È stato da brivido!” Maria replicò con tono seccato: “Invece, quando Tonio mi ha accompagnata a casa, mentre ci davamo il bacio della buona notte, ha iniziato ad allungare le mani, mi toccava dappertutto, più lo allontanavo più insisteva. Mia madre, che dalla finestra mi aveva visto arrivare, non vedendomi salire, ha iniziato a chiamarmi a gran voce, e così sono corsa in casa, lasciandolo lì impalato.
Si accorsero che la “piccola” aveva interrotto il lavoro per ascoltarle, e ridendo le dissero: “Aspetta, aspetta… poi vedrai!”
Finì l'estate e riaprirono le scuole.
Anna non ripeté più quell'esperienza, seguì altre vie, travolta dalla spirale del fato, ma portò con sé l'eco di quei momenti così intimi di sorellanza femminile, che il lavorare assieme aveva prodotto.
Nadia in poco tempo divenne una delle sarte più rinomate della città.