COME UNA CRISALIDE
Chiusa nel mio piccolo mondo, nella mia città, pensavo di vivere nell’unico modo possibile sulla terra. Non mi ero mai posta il problema che ci fosse altro al di fuori di quello che conoscevo, che avevo sempre visto intorno a me. La mia famiglia, pochi amici, la scuola, la mia insegnante.
Invece un giorno, dopo un forte diverbio tra mia madre e lo zio Fernando, ce ne siamo andate da casa della nonna. Mia madre ha affittato un piccolo appartamento in centro, dove la nostra vita ha ripreso a trascorrere nella normalità. Sotto casa c’era una fermata del pullman, e i rumori cittadini ci svegliavano ogni giorno: il parlottare della gente che transitava dalla mattina alla sera, il passare costante delle auto.
Mia madre lavorava a pochi passi da casa nostra, come dipendente nel comune, mentre io, che prima per andare a scuola ci mettevo pochi minuti, dovevo prendere il pullman.
Questo cambiamento mi piaceva. Mi faceva sentire libera, più adulta.
Al mattino ci alzavamo, facevamo colazione insieme, poi lei si preparava e usciva per andare a lavorare. Io restavo a casa da sola, facevo i compiti e più tardi mi preparavo per andare a scuola. All’epoca a scuola si facevano i turni: alcune classi al mattino e altre al pomeriggio, ovviamente io frequentavo al pomeriggio. Tornavo verso le diciotto e mia madre, che arriva prima, mi aspettava con la cena pronta. Eravamo solo io e lei. Poche volte l’avevo avuta tutta per me come in quel periodo. Quella sensazione mi piaceva. Lei era tranquilla, rilassata, nonostante le privazioni dovute al suo scarso stipendio. Ma io ero felice lo stesso.
Un giorno mia madre mi disse che dovevamo traslocare di nuovo. “Ce ne andiamo in un altro appartamento più vicino dalla tua scuola”. La notizia mi aveva colto di sorpresa, e non ne ero contenta: io stavo bene dov’eravamo.
“Ma quando?” Le ho chiesto. E lei: “Marita, ce ne andiamo la prossima settimana. L’appartamento è più ampio, ma dovremo condividerlo con due sorelle amiche mie. Vedrai che ti piaceranno, sarà una nuova esperienza per noi. La scuola sarà più vicina, ma per andarci prenderai l’autobus lo stesso.”
La guardai senza capire ciò che mi stava dicendo. Non capivo il senso di quello spostamento: perché lasciare il nostro piccolo appartamento in centro città, a pochi passi dal suo lavoro, per andare a condividere con due estranee il nostro spazio fisico, le nostre cene, le nostre conversazioni, la nostra intimità?
Non avendo la televisione – che non potevamo permetterci – le serate erano tutte per noi. Eravamo libere di vivere momenti di allegria e tenerezza: risate, battute fra di noi, alla sera una buonanotte piena d’emozione, d’amore vero. Temevo di perdere tutto questo.
Dopo qualche giorno, iniziammo a prepararci. Non c’era molto da portare nella nuova casa: i letti, due armadi, una piccola libreria, la stufa, il frigo, che mia madre aveva comprato con grandi sacrifici.
Ammiravo tanto mia madre. Da sola, non avendo mai un compagno a sostenerla, si era fatta la sua vita: non l’ho sentita mai lamentarsi per questo, anzi ne andava fiera. Amava la sua libertà. Lei è stata sempre la mia eroina.
Il giorno della partenza ci siamo fatte aiutare da un conoscente, e lui da un altro, con cui faceva servizi di trasloco. Con grande tristezza e profondo dolore iniziai a prendere gli scatoloni con dentro le nostre cose, i vestiti e tutto il resto. Prima di salire sul furgoncino, guardai per l’ultima volta l’alloggio che fino a quel momento era stato la nostra casa. L’amico di mamma aveva finito di organizzare tutto nel furgoncino. Mentre io mi organizzavo dentro di me.
La mia inutile resistenza interiore era passata inavvertita.
Ci siamo sedute sul sedile vicino al suo amico, che per me era uno sconosciuto. L’altro uomo era seduto dietro su un piccolo sedile. Mentre mia madre parlava del più e del meno col suo amico, mi prese la mano, penso per rassicurarmi. Io la guardai con un po’ d’incertezza, ma mentre l’auto percorreva la distanza che ci separava dal nostro nuovo alloggio, iniziai a sentirmi più calma. Era lo stesso percorso che facevo tutti i giorni quando andavo a scuola. Un tragitto che mi piaceva, ma quel giorno la sensazione non era tanto piacevole
Dopo quaranta minuti circa, l’auto si fermò. Mia madre scese per prima, poi mi diede la mano per aiutarmi. “Siamo arrivate,” mi disse. Io guardai con certo timore la casa a due piani. Sotto c’era un bar, ma non un bar qualunque. Era di quelli in cui le persone, per lo più uomini, andavano a ubriacarsi. Lo dedussi vedendo uno che usciva con due bottiglie di liquore e un’andatura vacillante.
“Il nostro alloggio è sopra,” disse mia madre. Iniziammo a prendere le nostre cose. Quelle pesanti le prendeva l’amico di mia madre, insieme all’aiutante.
Io cominciai a salire per le scale lentamente, il mio cuore era rattristato. I cambiamenti non mi sono mai piaciuti, o per meglio dire, raramente mi sono piaciuti.
Arrivate al secondo piano, c’erano le amiche di mamma per darci il benvenuto.
“Ciao, piccola, come va?” Mi chiese una di loro, la più alta. Dopo che si fu presentata seppi che si chiamava Sayda. E la sorella, più bassa, Mercedes.
“Bene,” le risposi. “Ti do una mano,” mi disse, prendendo la scatola che portavo con una certa fatica. La depose in quella che sarebbe stata la nostra camera, poi scese di nuovo con la sorella, per aitarci a completare il trasloco. Nel frattempo, i due uomini portarono su il frigo e la stufa, che collocarono nella piccola cucina. Per ultimo portarono gli armadi.
Intanto io facevo un giro esplorativo. In cucina c’era un tavolo con sei posti, una credenza per i piatti e altre stoviglie. In alto, una piccola finestra da cui entrava il sole, insieme a un’onda d’aria tiepida. I rumori della strada si facevano sentire. Uscendo dalla cucina, a sinistra, c’erano il bagno, poi un corridoio che finiva in un’altra camera vuota.
Tornai indietro pochi minuti prima che mia madre mi chiamasse.
“Marita, dove sei? Vieni un momento.” Mi avvicinai, mentre metteva in ordine camera nostra; nel frattempo, mi spiegava le regole da seguire nella nuova casa.
“Non puoi entrare nella camera delle mie amiche senza bussare. Il bagno nostro è quello in fondo,” mi disse, indicandomi una porta oltre quella che io credevo fosse l’ultima camera nel corridoio.
“La cucina è solo nostra. Sayda e Mercedes normalmente mangiano fuori o al lavoro. Tranne la colazione. Fai attenzione quando esci, guardati bene intorno. Innanzitutto, stai attenta che non ci siano clienti del bar vicino alla scala.”
Con un leggero movimento del capo confermai a mamma di aver capito tutto.
E così, mia madre ed io ricominciammo una nuova vita insieme alle sue amiche, che dopo qualche giorno diventarono anche le mie amiche: due persone squisite, gentili, gradevoli. Le mie paure sparirono man mano che le conoscevo meglio.
Un giorno, appena tornata da scuola, posai il mio zaino in camera nostra, poi sentii delle risate che venivano dalla camera delle nostre amiche. Poi sentii un’altra voce di una persona che non conoscevo. Un’altra donna. Incuriosita, guardai attraverso la porta socchiusa, facendo attenzione a non fare rumori.
Erano sedute in semicerchio su un letto. Nel centro c’erano delle carte posate a faccia in su, con un mazzo vicino. Mi sembrava di aver già visto delle carte così, colorate, con delle figure, ma da quella distanza non potevo distinguerle bene. L’amica loro ha preso il mazzo di carte, e le faceva girare fra le mani con molta destrezza.
“Io non ci avrei mai creduto in questa cosa,” disse Sayda.
“Neanch’io,” disse Mercedes, e ridevano.
A quel punto ho fatto un rumore, Mercedes mi ha vista e mi ha invitata ad entrare. Io l’ho fatto timidamente. Poi, incuriosita, ho guardato attentamente le figure delle carte, mentre la loro amica, che si chiamava Emy, incominciava a descrivere il gioco. Seppi così che si trattava dei tarocchi.
Il mazzo generalmente è composto da 78 carte, cioè un mazzo di carte tradizionali a cui si aggiungono ventuno carte dette Trionfi, e una singola detta il Matto. Queste sono illustrate con figure umane, animali e mitologiche, e la loro origine è molto antica: risale alla metà del Quattrocento, nell’Italia settentrionale. Circa due secoli dopo, a Bologna, qualcuno incominciò a usare i tarocchi come strumento per la cartomanzia…
Così stava spiegando Emy alle sue compagne, ed io, a soli dieci anni, fui coinvolta senza volerlo.
Guardavo le tre donne con grande attenzione, e non mi accorsi che mia madre era entrata nella stanza. Mi volsi a lei, spaventata a morte. Non mi ero accorta della sua presenza fino a quel momento. Credo avesse lanciato la borsa e i soliti pacchi in camera nostra, perché quando la vidi era a mani vuote. Le sorelle, dopo averla salutata, la invitarono a sedersi insieme a loro.
Mi salutò velocemente e ridendo si sedette, mentre Emy, una donna di mezz’età, dai corti capelli neri e dalle unghie lunghe, manipolava le carte con grande destrezza. Poi disse a Mercedes di sceglierne una.
Così, visto che adesso c’era anche mia madre e non mi aveva sgridata, anch’io mi avvicinai. Potei osservare attentamente la figura della carta scelta da Mercedes. Era un mago, così aveva detto Emy. Spiegò che rappresentava l’artefice della propria fortuna. Quindi era una carta positiva, indicava una persona capace e intelligente.
Mia madre chiese che cosa significasse la carta, nel caso fosse rovesciata.
“Allora può significare che si agisce con troppa fretta, senza riflettere,” rispose Emy. “Arrivismo, sfiducia nelle proprie capacità…”
Disse tante altre cose che adesso non ricordo. A un certo punto tutte si misero a ridere: io le guardavo senza capirne il motivo.
Adesso che ci penso, rievocando quel momento, il motivo era ovvio. Per loro era solo un gioco, almeno quella prima volta. Un gioco a cui in seguito si dedicarono almeno una volta alla settimana, e a questo punto, secondo me, non lo facevano più per ridere.
Quel gioco è andato avanti per lungo tempo, ed io, dal mio angolo di osservatrice, mi divertivo a guardarle, memorizzando a volte il significato delle carte: la papessa rappresenta serenità, conoscenza, fede e fedeltà. Valori e rettitudine morale. È una carta indubbiamente positiva.
Anche se per me si trattava di un gioco, ha segnato il passaggio fra la bimba arrivata in quel posto piena di paure, e l’adolescente in cui mi stavo trasformando. A poco a poco, avrei superato la timidezza e le incertezze infantili, trasformandole in punti di forza.
I cambiamenti non sono quasi mai completamente negativi.