IN PLANO FEMINAE MORTAE
Era una fredda e ventosa sera di marzo, ma al Castello degli Acaja di Pinerolo si respirava aria di festa. Da quando Giacomo, signore di Pinerolo, aveva sposato nella primavera del 1365 in seconde nozze la giovane e avvenente Margherita di Beaujeu, dama della corte savoiarda, il castello risplendeva sovente di luci e i nobili della città accorrevano numerosi all’invito della padrona di casa, famosa per la sua ospitalità.
Margherita era ancora nelle sue stanze con la cameriera personale che le stava acconciando le lunghe chiome bionde. Sorrideva all’immagine riflessa nello specchio: il nuovo vestito di broccato nero con disegni in argento faceva risaltare la sua carnagione chiara e gli occhi azzurri.
Era stata molto contrariata quando suo padre, Jean Pierre de Morat, l’aveva destinata a questo signore vedovo con due figli ormai adulti. L’idea di trasferirsi a Pignerol, anonima località ai piedi delle Alpi, non la entusiasmava per niente.
Naturalmente non poteva opporsi, ma aveva deciso in cuor suo di rendere il più piacevole possibile la sua vita di giovane castellana, a cui un marito anziano e accondiscendente non avrebbe negato nulla.
I figli di Giacomo, Filippo e Amedeo, l’accolsero con misurata cortesia, rimpiangendo la madre, donna eccezionale morta alcuni anni prima.
Margherita cercò nei giovani, suoi coetanei, un diversivo alla vita monotona, concentrando le sue attenzioni specialmente sul primogenito Filippo. La donna si invaghì del cavaliere e cercò in tutti i modi di farne il suo amante, mentre l’uomo restava fedele alla figura paterna e la respingeva senza remore. Margherita, carica d’odio per essere stata respinta, decise di vendicarsi e accusò Filippo di tradimento nei riguardi del genitore.
Era una brava attrice, Margherita, e finse di essere stata abusata dal figliastro: con lacrime e svenimenti convinse il coniuge della colpevolezza del figlio.
Filippo venne privato del diritto di primogenitura a favore del fratello e rinchiuso nelle carceri di Avigliana. Qui, in una notte di dicembre del 1368, venne prelevato dalla sua cella: incappucciato fu gettato nel lago grande.
Margherita ora danzava e si divertiva nel salone grande, sfoggiando la sua bellezza e posizione.
Una dama prese a raccontare che sulla collina delimitante il confine tra la piana di Roletto e la Val Lemina, in un bosco, si aggirava un fantasma che, ricoperto di un sudario, emetteva gemiti e urla di dolore, non trovando pace per essere stato ucciso ingiustamente.
L’attenzione dei presenti fu catturata da questo racconto, e si cominciò a mormorare che poteva essere il fantasma di Filippo, sparito nel nulla.
Margherita, quando si rese conto di non essere più al centro dell’attenzione, disse di non avere affatto paura di tali apparizioni; anzi, avrebbe provato il suo coraggio quella notte stessa, recandosi nel luogo indicato, e a prova di ciò avrebbe piantato un fuso nel terreno contaminato.
Giacomo e altri invitati cercarono di dissuaderla dall’impresa, ma Margherita fu irremovibile.
Una lunga fila di persone accompagnò la giovane ai margini del bosco, dove si fermò e, armata del fuso, avanzò da sola tra le ombre scure degli alberi.
Il vento faceva stormire le foglie, mentre gli uccelli notturni emettevano i loro suoni. Margherita avanzava a fatica sul terreno inzuppato dalle recenti piogge: ora, non poteva negarlo, era anche impaurita dal buio della notte. Non sentendo più alcun rumore provenire dai compagni, decise che lì avrebbe piantato il fuso e così fece. Poi si voltò svelta per ritornare sui suoi passi, ma qualcosa la trattenne, cercò ancora di avanzare, ma inutilmente, una forza oscura non le permetteva di muoversi. Cercò di sottrarre il vestito a quella forza, ma questo le si attorcigliava attorno alle gambe. Presa da uno spavento folle, urlò con tutte le sue forze e cadde al suolo, morta.
Sentendo le sue urla, coloro che l’avevano seguita se la diedero a gambe. Solo alle prime luci del giorno, un contadino la trovò riversa al suolo, con un lembo del vestito fissato al terreno dal fuso.
Al numero 115 di strada Costagrande, in un punto da cui il panorama della pianura appare in tutta la sua bellezza, si erge un pilone annerito dal tempo e dalle intemperie, a ricordo di una donna che trovò la morte volendo provare il suo coraggio: il pilone della donna morta.
Il fatto che fin dal XIV secolo la località sia indicata in documenti ufficiali col nome ‘in plano feminae mortae’, dimostra come questa vicenda abbia avuto presa sulle credenze popolari di questi luoghi.