LA CAPRA
Nessuna pretesa di correggere Silvio D'Arzo, solo voglia di conoscere di più la vecchia.
Il sole e il gelo avevano disegnato sulla sua pelle più rughe di quelle che meritava e così per tutti era solo la vecchia. Lei ricordava appena il suo nome, Zelinda: nessuno l’aveva più chiamata per nome da quando era bambina. Lei da sola si diceva Trista.
Non ricordava di essere mai stata giovane: i sogni glieli avevano spenti le suore dell’orfanotrofio a bacchettate sulle mani.
Ricordava il dolore e la paura che aveva conosciuto quando una banda di briganti l’aveva assalita nel bosco mentre raccoglieva le castagne.
Poi era andata a fare una vita da galera in quel paese senza strade: ogni giorno all’alba scendere al paese a consegnare la roba lavata e a caricare il carretto di roba da lavare, ogni giorno scendere al canale in fondo al burrone per lavare la biancheria e gli stracci vecchi e anche budella, ogni sera risalire dallo svalanco verso quella catapecchia occupata abusivamente.
Non c’era mai stato niente di facile per lei.
Ma ora sì: era facile lasciarsi scivolare col carretto carico e gli zoccoli lisci, che non facevano presa sul ghiaccio o sull’erba secca. Era facile; l’aveva pensato tante volte. Ma se poi non era finita? Se si rompeva qualche osso ma non moriva e la portavano in un ricovero? No, l’istituto per gli orfanelli le era bastato, non voleva provare altra carità cristiana. E poi c’era Macià, la sua capretta. Che fine avrebbe fatto? Legata al carretto, anche lei sarebbe precipitata, ma forse non moriva.
Macià era l’unico essere che le era stato vicino senza disprezzarla. Era l’unica che meritava rispetto.
Aveva provato a parlare con quel prete che sembrava un armadio. Era stato come parlare al muro e si sa, i muri non hanno cuore.
E ancora e ancora aveva continuato a tirare la carretta.
Poi un giorno, mentre Macià pascolava sul bordo del canale, la vecchia si lasciò scivolare nell’acqua profonda: forse le era scappato di mano il sapone.