LA SIGNORA CLARA - testo completo

1. IL SETIFICIO

La mia vicina Clara non aveva avuto una vita facile, da giovane, e da vecchia non fu più fortunata.
Era nata a Roure nel 1924, da una ragazza madre mandata via di casa per limitare lo scandalo nella contrada. La madre, Luisa, era di corporatura esile, ma aveva un carattere forte.

A detta dei genitori, era sempre stata una brava figlia, finché non perse la testa per un giovane di un paese vicino. Si frequentarono di nascosto per qualche mese e, quando si accorse di essere incinta, il ragazzo non si fece più vedere; lei prese in mano la situazione e ne parlò in famiglia. Il padre si infuriò terribilmente, voleva sapere chi avesse causato la gravidanza, per poterlo riempire di botte e obbligarlo a sposarla. Luisa fu irremovibile e non lo rivelò mai a nessuno.

Le liti continuavano, in casa Brun, finché un giorno il padre la cacciò definitivamente. La poveretta, per sopravvivere, si arrabattava con qualche lavoro occasionale; un’amica la fece abitare in uno stanzino sotto casa propria.

Luisa era sempre rancorosa verso il padre, artefice del suo allontanamento, ma di sua madre aveva una forte nostalgia. La gravidanza proseguì bene, e in un freddo giorno di dicembre nacque la sua bambina. Inizialmente fu aiutata dall’amica ma, appena poté, raccolse le sue forze e cominciò a badare alla piccola e a sé stessa.

Clara cresceva con non poche difficoltà: era minuta, ma sveglia come sua madre, e osservava tutto con i suoi bellissimi occhi azzurri.

Al compimento dei sei anni, iniziò la prima elementare: imparava facilmente e la mamma era molto orgogliosa. Appena Clara fu capace a scrivere, le dettò una letterina per la nonna che non aveva ancora conosciuto.

“Carissima maire, come state? Per noi la vita e dificile ma andiamo avanti o sempre saputo che voi non volevate mandarmi via ma le mun paire che cumando eici. 
è la mia figlio ce scrive e spero che voi trovate cualcuno per legerla ma non paire 
La citto si ciama Clara come nonna e spero che puo studiare per vivere meglio di me sono contenta se mi rispondete vi mando un grande abraccio la vostra afezzionata figlio”

In quegli anni continuava a espandersi una filanda di seta, con sede a Perosa Argentina, una ventina di chilometri a sud di Roure.

Era stata acquistata nel 1883 da un industriale ebreo, un certo Rodolfo Guetermann proveniente da Gutach (nella Foresta Nera), che aveva saputo approfittare di una crisi finanziaria del precedente proprietario. Con l’aiuto di altri famigliari, l’imprenditore seppe sfruttare l’ottimo avviamento dell’azienda, considerata una filanda modello, già al momento dell’acquisto. La struttura industriale, a più piani, sorgeva sulle sponde del torrente Chisone, utile per la propulsione meccanica degli impianti. Il nuovo proprietario, grazie alla sua esperienza nel settore – aveva già  fondato un’omonima fabbrica a Vienna e poi a Gutach – sfruttò   la potenza dell’acqua per produrre energia elettrica, da erogare in molti paesi circostanti. In tal modo, riuscì a risollevare l’azienda dalla crisi, con notevoli benefici per la popolazione.

Si cominciò a parlare di questo “tedesco” come di un salvatore della valle. Cresceva la richiesta di manodopera, sia per la produzione vera e propria della seta, sia per la costruzione di macchine e per le riparazioni delle stesse nell’officina annessa allo stabilimento.

Con la costruzione dei macchinari, il mercato si ampliò: il setificio Guetermann fu infatti il primo stabilimento tessile del mondo ad eseguire anche la lavorazione dei cascami di seta e ad aprire a terzi il mercato dei prodotti meccanici. S’intensificò quindi l’allevamento del baco da seta nei paesi limitrofi, fino alla pianura pinerolese, e furono assunti nuovi operai. La filanda cresceva sempre più e così la necessità di manodopera, specialmente femminile: le donne erano preferite per via delle loro mani minute e per il salario inferiore a quello maschile del 30%, ma era difficile trovare operaie in loco.

Le famiglie consideravano la fabbrica un ambiente di dubbia moralità e spesso non permettevano alle loro figlie di lavorarci.

Fu anche per questo motivo che molte giovani, con o senza famiglia, arrivarono dal Veneto.

Di pari passo con l’espansione industriale si procedeva con la costruzione di casette, negozi, asili, scuole e centri di ricreazione per gli operai. Vista l’affluenza dal Veneto le nuove abitazioni presero il nome di “case venete”.

In questa fase di ampliamento, prima della guerra, anche Luisa e la giovane Clara trovarono lavoro nello stabilimento.

Il primo giorno di lavoro fu per loro come entrare nel paese delle meraviglie: furono incantate dal movimento dei macchinari, che facevano passare i fili da una parte all’altra, mentre mani svelte e sicure si assicuravano che il filo scorresse senza inciampi.

Ma la loro attenzione fu richiamata dall’accompagnatore, che le sollecitò a seguirlo. Non erano destinate ai macchinari che tanto avevano ammirato, ma alla prima fase di lavorazione. L’uomo mostrò loro una miriade di grosse ceste piene di bozzoli, che gli allevatori stavano scaricando. Furono assegnate alla cernita dei bozzoli, insieme a tante altre operaie: dovevano separare dagli altri quelli imperfetti.

In seguito impararono a non gettare gli scarti, che potevano essere impiegati insieme ad altri cascami di seta. I bozzoli scelti, invece, li mettevano a bagno in grosse bacinelle d’acqua bollente: dopo alcuni minuti li raccoglievano e li consegnavano alle filatrici.

Il lavoro non era difficile: dovevano stare attente a non lasciare bozzoli difettosi, ed essere caute con l’acqua bollente e con i vapori emanati di continuo. Finivano la giornata lavorativa con gli abiti così umidi da sembrare lavandaie, ma non se ne lamentavano, erano abituate a ben peggio.

Dopo pochi mesi, furono assunte nuove ragazze e loro furono assegnate a un altro reparto perché imparassero il mestiere di filatrici. Qui il lavoro era sicuramente più complicato: dovevano togliere dai bozzoli la parte esteriore dell’involucro, ricavandone un ruffello; a questo punto dovevano cercare il capo del filo di ogni bozzolo, unirne alcuni insieme, a seconda della grossezza del filo che si voleva ottenere. Impararono che i capi del filo, chiamati bave, dovevano essere avvolti sull’aspo per comporre la matassa. Quest’operazione era chiamata trattura. Dopo lo sfilamento dei bozzoli, rimanevano ancora pellicine che, insieme ai ruffelli e ai bozzoli scartati inizialmente, venivano cardati da altri operai, con rudimentali carde azionate a mano, come quelle usate dai materassai. Si otteneva così un pettinato di seta, chiamato fioretto, dal quale si ricavava un filato grossolano, usato per realizzare paramenti, addobbi, drappi, tendaggi.

Da quest’attività più che artigianale, prese inizio la lavorazione dei cascami che, poco per volta, permise di ottenere filati di poco inferiori a quelli ottenuti dalla seta tratta.

Il caporeparto teneva le due donne in gran considerazione, tanto da assegnare loro compiti sempre più delicati. Lavorarono come filatrici per qualche mese, poi Clara passò a un nuovo incarico.

Faceva un lavoro di collaudo, e tanti anni dopo mi raccontava orgogliosa:
“Era un lavoro pulito, quasi da impiegata. Usavo un attrezzo, una specie di ‘cannocchiale’, per controllare il prodotto finito”.

Con molta fierezza, ricordava che, dopo un solo anno di lavoro al setificio, erano state in grado di comprare un armadio e un comò e di affittare due camerette.

2. LA VILLA

L’anno successivo Luisa si ammalò di tubercolosi e morì.
Clara, rimasta sola, fu affidata agli zii, in un paese dell’alta valle: dovette lasciare il lavoro che le aveva dato tante soddisfazioni.
Non c’erano fabbriche in quel paese, e la ragazza aiutava i parenti nei lavori agricoli.

Qualche mese dopo, arrivò nel cortile degli zii un’elegante automobile: ne scese un uomo in divisa, che doveva consegnare una lettera alla signorina Clara Brun. La ragazza, sentendo il suo nome, arrivò di corsa e timidamente la ritirò. Il fattorino le disse che avrebbe dovuto inviare la risposta all’indirizzo stampato sulla busta, salutò e se ne andò.
Clara, incredula, si affrettò a leggerla ad alta voce davanti agli zii.

Gentile signorina Brun,
sono stata informata del grave lutto che l’ha colpita, e del suo trasferimento presso gli zii, per cui è stata costretta a lasciare il lavoro.
Il suo ex caporeparto mi ha parlato molto bene di lei e, per ringraziarla della dedizione e serietà dimostrate in fabbrica, vorrei proporle un nuovo impiego. 
Mi serve una nuova cameriera, che di tanto in tanto sia disponibile a occuparsi anche dei bambini. Alla villa avrebbe a disposizione una camera tutta sua, potrebbe cominciare tra dieci giorni.
Mi faccia sapere la sua decisione.
Un affettuoso saluto
I. Guetermann”

Rimasero tutti alquanto sbalorditi. Clara era felicissima per la proposta, ma ancora incredula.
Ne parlarono a mente calma durante il pranzo, e la decisione fu presa. Clara si affrettò a cercare un foglio per scrivere la risposta alla signora Guetermann.

Gentilissima signora, vi ringrazio molto per la lettera che mi avete mandato. I miei zii mi hanno detto che faccio bene se vengo a lavorare a casa vostra, così vi dico che sono pronta a venire. Tante grazie                                                                                                                        
Clara Brun


Piegò il foglio e corse in paese a comprare la busta e il francobollo. Scrisse con molta attenzione l’indirizzo e la imbucò con trepidazione. Tornò a casa e riprese a zappettare l’orto con la zia, pensando che ormai lo avrebbe fatto solo per pochi giorni. 
A fine settimana, preparò un fagotto con i pochi indumenti che aveva, salutò gli zii, inforcò la sua bicicletta salendoci in movimento e si diresse verso la nuova vita. Fortunatamente il tragitto era in discesa, ma i chilometri erano almeno una ventina.
Arrivata alla villa, si rimise un po’ in sesto e suonò timidamente. Venne ad aprire un signore che la accompagnò in casa. Fu poi ricevuta dalla padrona che, dopo averla osservata per bene, le spiegò che avrebbe dovuto servire a tavola durante le numerose cene in villa e occuparsi dei bambini in alcuni pomeriggi. Le parlò del suo compenso, dell’abbigliamento che avrebbe dovuto usare e di tante altre cose, ma Clara era così emozionata e attratta dalla bellezza della casa che non capì nemmeno quanto l’avrebbero pagata. Annuiva a tutto ciò che la signora diceva, si scosse soltanto quando chiamò una cameriera perché l’accompagnasse in camera e le desse le prime istruzioni per iniziare il lavoro. 
La giovane donna si chiamava Ines; le mostrò la sua stanzetta, le disse di cambiarsi con gli abiti che trovava nell’armadio e poi recarsi in cucina, in fondo al corridoio.
Clara, contenta e spaventata allo stesso tempo, si guardò intorno: l’arredamento era semplice, ma notò con grande stupore che la finestra aveva le tende e l’armadio addirittura lo specchio.
Si guardò forse per la prima volta a figura intera: in quel momento si vedeva piccola e spaventata. Aprì l’armadio, tirò giù due grucce e trovò il suo nuovo abbigliamento: un camice nero con colletto e polsini bianchi e un grembiulino bordato di pizzo anch’esso bianco.
Si cambiò, si pettinò rifacendosi la crocchia dietro la nuca e si recò in cucina, dove fu accolta da altre donne intente a preparare il pranzo. La cuoca la squadrò per bene: le sembrò di non esserle piaciuta, forse era troppa magra per i suoi gusti. Fecero le presentazioni e la cuoca si affrettò a spiegarle che avrebbe dovuto aiutare anche in cucina, per la preparazione delle vivande, e al momento opportuno servire a tavola. Assegnò a Ines il compito di insegnarle innanzitutto a farsi la crocchia come tutte le altre, il portamento, e quindi come servire a tavola. Avrebbe fatto pratica servendo le sue colleghe per qualche giorno, per poi cominciare a servire in sala da pranzo. 
Clara era una bella ragazza di media statura, piuttosto esile. Aveva capelli chiari leggermente mossi, portava un paio di orecchini con un pendaglio di acquamarina che facevano risaltare i suoi occhi azzurri e vispi, le spalle un po’ infossate denotavano una certa insicurezza. Aveva le mani rovinate dal lavoro, le dita spaccate da geloni aperti per il freddo patito al lavatoio del paese. I piedi non erano da meno, ma portava sempre le calze di lana e gli zoccoli che le portavano un po’ di sollievo. Era abituata a lavorare molto e con molta serietà, e questo la faceva sembrare più adulta dei suoi diciassette anni. 
A parte il periodo in cui aveva lavorato al setificio, non aveva avuto molte occasioni di vita sociale, per cui aveva difficoltà ad approcciarsi a nuove conoscenze. Si sentiva inferiore alle altre persone di servizio, più eleganti nelle movenze e abituate da molto tempo a vivere con persone colte e ricche. 

3. IL NUOVO LAVORO

Le diedero un grembiulone scuro e due coprimaniche. La cuoca le ordinò di pulire e affettare le verdure che vedeva sul tavolo e lei si mise subito al lavoro. Le altre ragazze, ognuna intenta alla sua occupazione, chiacchieravano tra loro e ogni tanto si alzava una risatina, che metteva di buon umore. La nuova arrivata, fin dal primo giorno, fu contenta di trovarsi in quella cucina e sentì subito di farne parte: a parte la cuoca un po’ severa, fu accolta dalle compagne come una sorella minore e in poco tempo fu completamente a suo agio. 
Quando venne il momento di servire i proprietari che stavano rincasando, Ines cambiò il grembiule da cucina con quello bianco bordato di pizzo, tolse i coprimaniche.
Clara cominciò a agitarsi, pensando che toccasse anche a lei, ma Ines le ricordò che se ne sarebbe occupata ancora per qualche giorno.
La ragazza tirò un respiro di sollievo e seguì con attenzione tutto ciò che la sua collega faceva per cercare di imparare al meglio. 
Quando la famiglia Guetermann finì di pranzare, giunse il momento di mangiare anche per la servitù: Clara non vedeva l’ora di sedersi di fronte a un piatto fumante, ma Ines non gliene diede il tempo.
“Per qualche giorno ci servirai tu, in modo da imparare più velocemente, visto che fra poco dovrai essere in grado di aiutarmi durante una cena importante. Tu mangerai quando avremo finito noi.” 
Lo stomaco di Clara doveva ancora aspettare, ma fu contenta di iniziare il suo apprendistato.
La cuoca le preparò il piatto di portata e le disse di procedere. La ragazza prese il piatto ovale con entrambe le mani, si avviò titubante verso il tavolo e fu subito ripresa dalla sua insegnante. 
“Clara, se prendi il piatto con due mani, come farai a servire? Hai forse tre mani, tu?”
La risatina delle altre ragazze fu subito bloccata dallo sguardo di Ines, che continuò: “Guarda, la mano sinistra va sotto il piatto: servirai in tavola con la destra, mettendoti alla sinistra di chi devi servire. Devi camminare dritta e sicura, non sei più una ragazzina di montagna. Domani ti procurerò un paio di scarpe adatte. Prova tu, adesso.” 
Clara dapprima si dispiacque delle risatine delle compagne, poi ci mise la sua testardaggine da “muntagnino” ed eseguì l’ordine ricevuto. Si sentiva un po’ impacciata, ma riuscì a servire tutte senza provocare danni e cercando di tenere un buon portamento. 
Fu poi il momento di servire la zuppa di verdure, già pronta in una bella zuppiera con tanto di mestolo al suo fianco. Nell’immergerlo, Clara rimase sbalordita per la consistenza di quella minestra, così diversa da quella slavata che era abituata a mangiare a casa; questa era cremosa, ricca di tante verdure che, oltre tutto, emanavano un profumo delicato e ristoratore. Si destò dai suoi pensieri sentendo la voce di Ines che la interrogava.
“Adesso hai un piatto diverso, come lo serviresti?” 
Ci pensò un attimo e timidamente rispose: “Prendo la zuppiera dai manici, la metto nel centro del tavolo e loro si servono.” 
“Questo va bene per un pranzo o una cena della sola famiglia, perché la signora provvederà a servire gli altri. Ma se ci sono ospiti, è la cameriera che deve versare nei piatti. E quindi? Prova tu.”
Clara, ricordandosi della prima portata, appoggiò la zuppiera alla sinistra del commensale e servì la minestra con la mano destra. Guardò Ines, che annuì senza tanti complimenti, e si sentì gratificata. 
Fu poi il momento della pietanza, del purè e di un piccolo dolce. 
“Bene, per oggi basta così, domani serviremo il vino e l’acqua e ti farò vedere come apparecchiare il tavolo. Adesso puoi mangiare anche tu” disse finalmente Ines. 
Clara, soddisfatta del suo operato, anche se l’ora per il pranzo era ormai passata, si sedette volentieri davanti a un bel piatto di minestra. Sentendosi osservata dalle altre, cercava di mangiare con la poca eleganza che conosceva, sforzandosi di fare poco rumore ogni volta che metteva il cucchiaio in bocca, e non era facile, data la bontà della minestra. Le venne in mente quella che mangiava con la mamma, poi quella della zia, altrettanto lunga, e ricordò tutte le sofferenze passate. 
Non volle altro, non era abituata a mangiare anche la pietanza. 
Fece la sua parte, mettendo in ordine la cucina e la sala da pranzo, e cominciò a prendere un po’ di confidenza con le altre ragazze.
Il mattino dopo le furono consegnate le scarpe da tenere durante il lavoro: erano semplici, belle, ma per lei furono una vera tortura; fino ad allora aveva sempre portato “le soche cui causet ‘d lana” e il pensiero di infilare quelle esili scarpette la faceva rabbrividire. Le provò e, nonostante fossero leggermente grandi, aveva male ai piedi. Un po’ alla volta, i geloni sparirono e lei si abituò ad usare le scarpe chiuse senza problemi. 
Aveva voglia di imparare, ogni giorno che passava si sentiva più a suo agio in quella casa, ed era sempre più contenta di essere lì, si sentiva come in famiglia. 
I giorni successivi furono molto intensi, erano tante le cose da imparare, ma Clara voleva apprendere in fretta, non vedeva l’ora di servire in modo indipendente. Imparò a preparare il tavolo da pranzo, a servire altre vivande e fu molto orgogliosa di prestare il suo servizio direttamente ai signori Guetermann. Nel suo via vai dalla cucina li sentiva chiacchierare, ma non capiva neanche una parola, in quanto parlavano in tedesco. Un giorno credette di aver imparato quella strana lingua e ne parlò con le altre ragazze. 
“E facci sentire, cosa sai?” 
“Dopo che ho servito, ognuno di loro mi dice ‘danche’, ho capito che vuol dire grazie.” 
“Tutto qui?” 
Le amiche scoppiarono a ridere e le affibbiarono il soprannome di ‘sapientina’. Non le diede fastidio, anzi questo la aiutò a sentirsi sempre di più una di loro. 
Passarono i giorni e anche se Clara acquisiva sempre più sicurezza nel suo lavoro, quando seppe che si stava organizzando una cena con altri imprenditori, si preoccupò molto. 
Nella casa iniziarono i preparativi, la cuoca era indaffarata a dare ordini alle assistenti, le cameriere preparavano la sala da pranzo. 
Cominciarono ad arrivare gli ospiti; le signore impellicciate le davano una certa soggezione, ma furono subito richiamate dalla padrona di casa che le invitava ad accomodarsi in salotto. 
Dopo qualche chiacchiera e qualche sigaro, la signora Guetermann accompagnò gli ospiti in sala da pranzo e disse a Ines che avrebbero potuto cominciare a servire. La giovane ebbe qualche esitazione iniziale, ma poi riuscì a fare bene il suo lavoro. 
Quando gli ospiti lasciarono la casa, Ines le fece notare due piccoli errori commessi, ma le disse che comunque era stata brava.
Clara era molto felice e avrebbe desiderato raccontarlo alla sua mamma, che sarebbe stata orgogliosa di lei. 
La sera successiva c’era calma in casa e la ragazza poté ritirarsi in camera non troppo tardi. Voleva raccontare a qualcuno tutto ciò che stava avvenendo, e decise di scrivere agli zii. 

Cari zii, vi scrivo questa lettera per farvi sapere che sto bene e così spero di voi. Mi trovo bene qui. 
Appena sono arrivata mi ha fatto paura la cuoca è molto severa ma non è cattiva. Ho saputo che è una zitella e forse è per questo motivo che è così. 
Ci sono altre quattro ragazze un po’ più grandi di me e andiamo d’accordo anche se certe volte scoppiano a ridere quando sbaglio qualcosa. 
Poi c’è Ines che è la persona di fiducia della padrona e mi insegna tante cose adesso so servire a tavola anche durante le cene importanti e so camminare dritta come vuole lei. 
Ho imparato a usare in casa le scarpe da festa e non ho più le sciòle ai piedi perché non prendo freddo qui fa caldo. Penso che se mamma lavorava qui non moriva per la polmonite e mi sembra di vederla sempre qui vicino a me. 
I padroni li vedo poco perché lavorano sempre ma sono molto gentili con noi. Ogni tanto le altre ragazze sparlano un po’ di loro. Dicono che sono antifascisti, ma io non so cosa vuol dire, raccontano anche che la signora era stata moglie di un militare importante dell’esercito tedesco e anche per questo aveva un certo giro di amicizie.
Mi hanno dato una cameretta tutta per me c’è il letto l’armadio e un tavolino, pensate che sulla porta dell’armadio c’è un grande specchio e alle finestre ci sono le tende. Non potevo essere più fortunata.
Dalla finestra vedo un pezzo del giardino e il cancello principale e dall’altra parte la strada statale quella che porta a Pinerolo e a Torino. Spero di andarci una volta a Pinerolo mi ha detto Ines che Pinerolo è come vedere Torino solo un po’ più piccola, lei ci è andata una volta con la signora Guetermann a comprare delle cose. 
Ho imparato qualche parola in tedesco perché sento i padroni parlare così, non capisco niente ma è bello sentirli sembra una musica quella parlata. 
Mi piacerebbe venirvi a trovare ma per adesso non mi è permesso, Ines mi ha detto che nella bella stagione possiamo andare a vedere le nostre famiglie per qualche giorno. 
Spero che posso spedire questa lettera in fretta e che voi mi potete rispondere. 
Vi mando un grande abbraccio la vostra affezionatissima Clara
           

4. INIZIO DELLA GUERRA

Clara aveva notato che da qualche tempo il signor Guetermann riceveva più visite del solito e, passando davanti al suo studio, aveva sentito che ascoltava sovente la radio.
Un pomeriggio, dovette occuparsi dei bambini, due maschietti molto vivaci e simpatici: giocarono per un po’ nella loro camera ben fornita di giochi e, dopo pranzo, scesero in giardino. Giocarono a rincorrersi, poi a nascondino, tra gli alberi sul retro della villa: Clara si sentiva bambina anch’essa e con loro imparava a divertirsi, come non aveva potuto fare nella sua fanciullezza.
Videro arrivare una motocicletta con un militare, che consegnò direttamente al signor Guetermann alcune lettere, parlarono qualche minuto e si congedarono.
“Perché è venuto un soldato da noi?” chiese il più grande.
“Non lo so, forse per un lavoro.”
“Dai, giochiamo ai soldati!”
Le fresche giornate cominciavano a lasciare il posto a quelle quasi estive e lei sperava di andare presto a visitare gli zii, ma le sue aspettative restarono deluse.
In villa giravano voci di un probabile conflitto, ma Clara pensava di essere in una specie di zona protetta e quindi non dava peso a ciò che sentiva. Eppure, qualcosa d’importante stava per succedere: in cucina le compagne dicevano che l’Italia era ormai entrata in guerra.
“Ma noi qui siamo lontane dalle grandi città, quindi siamo al sicuro, vero?”
“Penso che nessuno sarà al sicuro d’ora in poi” rispose Ines. “Questa è una guerra grande, ho sentito il signor Guetermann mentre ne parlava al telefono.” Nei giorni seguenti ci fu un po’ di agitazione nella famiglia, ma Clara non riuscì a capire il perché. Si accorse più avanti che mancava il signor Guetermann e cominciò a chiedere notizie alle ragazze. Senza che la cuoca sentisse, Ines raccontò che il padrone, dopo aver sentito che l’Italia fascista entrava in guerra alleandosi con la Germania, aveva preparato in fretta e furia la sua fuga verso la Svizzera, lasciando moglie e figli a Perosa, convinto che sarebbero stati al sicuro comunque. La signora era stata sposata in prime nozze con un ufficiale tedesco di alto livello, per cui godeva di un certo privilegio. Lui invece, in quanto ebreo, sarebbe stato perseguitato, non poteva restare.
C’era molta preoccupazione per la guerra, ma nei primi tempi, in quell’ambiente di provincia, non ci furono grandi problemi.
Molti dipendenti della filanda furono chiamati alle armi e la produzione ebbe inizialmente un forte calo; i filati furono poi utilizzati per confezionare i paracaduti.
Presso le cosiddette “case venete” furono costruiti due rifugi antiaerei per la popolazione. Il primo, realizzato dai Guetermann nel 1940, poteva ospitare un’ottantina di persone ed era destinato ai capi reparto e ai dirigenti dello stabilimento, ultimi a evacuare in caso di allarme. Il secondo fu creato nel ‘42, scavato nella roccia, e poteva riparare 344 persone sedute su panche appoggiate ai muri. Al centro vi era un camino alto diciassette metri, che consentiva il ricambio d’aria ed eventualmente poteva trasformarsi in uscita di sicurezza. Era dotato di una lunga scala di pioli di ferro piantati nel muro, interrotta da terrazzi per facilitare l’uscita e limitare i rischi di cadute durante la fuga. Fortunatamente fu usato solo come camino, per cucinare durante le attese più lunghe.
Al suono delle sirene tutti correvano nei rifugi, percorrevano il lungo corridoio a forma di S, studiato così affinché un eventuale boato potesse essere meno dannoso. In attesa che suonasse la sirena per lo scampato pericolo si passava il tempo chiacchierando; qualcuno scriveva sui muri, some se volesse lasciare un segno del suo passaggio, in caso di morte.
Anche se Perosa non fu mai bombardata, si venne a sapere che Villar, poco più in basso, era stata colpita.
Si diffuse poi la notizia che Torino era bombardata a ripetizione dagli Alleati. Dicevano fosse per via della FIAT, che durante la precedente guerra aveva fornito materiale bellico per sostenere il conflitto.
A parte la paura costante e le corse verso i rifugi, in villa si svolgeva una vita quasi regolare; le cene con i vari imprenditori lasciarono il posto a quelle con gli ufficiali che, con le loro divise, mettevano in soggezione tutta la servitù.
Con l’avanzare della guerra e approfittando della nazionalità della famiglia, si stabilì in villa un comando tedesco.
La signora sopportava malamente questa intrusione, ma per salvaguardare i figli, il marito e la filanda stessa, decise suo malgrado di essere ospitale con i militari, fornendo loro anche assistenza per le traduzioni in italiano.
Il lavoro, per Clara e le compagne, diventò sempre più gravoso: passavano molto tempo a preparare cibi per gli ospiti numerosi e piuttosto esigenti. Alcuni facevano apprezzamenti si di loro e se la ridevano quando riuscivano a metterle a disagio.
Nell’autunno-inverno ‘43/’44 si formarono gruppi partigiani provenienti dai disciolti reggimenti: molti di quei giovani erano buoni conoscitori della valle ed esperti sciatori.
Nei mesi seguenti, nonostante le continue imboscate e i rastrellamenti tedeschi, la lotta partigiana fu caratterizzata dall’ostinata difesa delle vecchie baite che i residenti avevano scelto come rifugi.
Nel marzo ’44, dopo giorni di resistenza contro i nazifascisti, che si facevano scudo della popolazione e spesso per rappresaglia incendiavano case, i partigiani dovettero ripiegare e rifugiarsi nella vicina val Troncea. Alla fine dell’estate, tuttavia, riuscirono a occupare la val Chisone, da Perosa Argentina al versante Valsusino del colle del Sestriere, dando vita a una zona libera.
In quel periodo, una sera, durante una delle solite cene con i tedeschi, la servitù, sbirciando terrorizzata da dietro i tendoni, assistette una scena difficile da dimenticare.
Alla sentinella di ronda in giardino era sembrato di vedere qualcuno aggirarsi dietro i cespugli: ai suoi richiami erano accorsi i militari presenti in casa, compresa la signora che aveva subodorato qualcosa. I soldati le chiesero di allontanarsi e cominciarono a perquisire il giardino. Poco distante si udì qualche tafferuglio e fu trovato un uomo armato: accusato di aver organizzato insieme ad altri un attentato contro di loro, fu destinato alla fucilazione immediata. La signora intervenne con decisione, chiedendo spiegazioni al capitano. Disse che il prigioniero era il miglior meccanico della filanda e non c’entrava nulla con l’attentato immaginato dai soldati. L’uomo fu lasciato libero e la signora ricevette addirittura le scuse dal capitano.

5. INCONTRO

Ogni volta che Clara giocava in giardino con i bambini, notava oltre le vetrate delle serre un uomo intento ad occuparsi dei limoni e delle nuove piantine di fiori. Era sempre solo, concentrato sul lavoro che eseguiva con competenza e amore.
Lo vedeva preparare bellissime ciotole fiorite, da esporre all’ingresso principale della villa: sapeva accostare in modo armonioso i colori dei fiori, come sulla tavolozza di un pittore.
Mentre lo osservava incuriosita, si accorse che anche lui qualche volta la guardava, ma abbassava rapido gli occhi per non farsi sorprendere. Col passare dei giorni, Clara si rese conto di pensare spesso al giardiniere, attratta soprattutto dalla sua serietà.
Seppe dalle compagne che si chiamava Giovanni e prima di lavorare in giardino aveva fatto il meccanico nell’officina della filanda, ma lei in fabbrica non lo aveva mai notato.
A Giovanni la ragazza piaceva, ma vedendola così giovane non osava fare passi verso di lei. Fu grazie al piccolo Guetermann che ebbero modo di guardarsi da vicino e presentarsi.
Il bambino aveva lanciato la palla sul tetto della serra: lui con garbo la recuperò e con altrettanta delicatezza iniziò una breve conversazione.
In quel momento Clara si rese conto che non era un giovanotto, ma un uomo fatto.
Si rividero spesso: la ragazza si affacciava alle finestre sul retro per vederlo in giardino e lui, in attesa, la salutava con un piccolo gesto del capo accompagnato da un sorriso.
Le altre ragazze si accorsero che la compagna era cambiata e cominciarono a tempestarla di domande, finché lei rivelò che era interessata a Giovanni.
Durante le loro fugaci conversazioni cominciarono a conoscersi e finalmente lui riuscì a toccare l’argomento riguardante la loro età: scoprirono così che c’era una differenza di ben tredici anni. Per Clara questo non rappresentava un problema, anzi, ripensandoci più avanti, si accorse di essere attratta da lui anche per questo motivo. L’uomo, non più giovanissimo, le dava un senso di sicurezza. Giovanni invece era un po’ tentennante, si sentiva troppo grande per quella giovinetta.
Nei mesi successivi, tuttavia, continuarono a “parlarsi”, e più avanti (nel 1944) presero la decisione di sposarsi.
Dopo il matrimonio dovettero lasciare il lavoro in villa.
I genitori di Giovanni abitavano nel pinerolese, in una vecchia cascina; la mamma era in cattive condizioni di salute, e Clara avrebbe dovuto accudirla per il breve periodo che le restava.
Il marito le aveva promesso che, dopo la sua morte, sarebbero andati a vivere altrove.
Lui andò a lavorare con il fratello maggiore già sposato, che aveva un piccolo negozio di biciclette in Pinerolo. Giovanni gli sarebbe stato utile grazie alla sua esperienza di meccanico.
La famiglia del marito era composta, oltre che dai suoceri, da altri due figli maschi, anch’essi più vecchi di lui e non sposati. Per la ragazza era di nuovo ora di rimboccarsi le maniche.
“C’era tanto da lavorare,” mi raccontava Clara. “Mi volevano tutti bene, anche se non era facile dé dament atuj cui scapulun là. Mio suocero diceva che sì ero brava, ma avevo un grande difetto: non ero di campagna.”
Nonostante la promessa del marito, alla morte della suocera, non andarono via da quella casa: Clara era rimasta l’unica donna della famiglia e continuò a occuparsi dei lavori domestici. Abituata in montagna, dava del voi anche ai cognati e mantenne quest’abitudine anche con me, cambiando solo il voi con il lei.
Più avanti anche il suocero si ammalò e cominciò a diffidare di lei. Se Clara gli chiedeva “Cosa volete da mangiare?” il vecchio le rispondeva “Quello che mangiate voi”.
In questo modo si credeva sicuro di non essere avvelenato dalla nuora. Quando capitava che cucinasse da loro la figlia sposata, chiedeva invece qualcosa di diverso.
Quando Clara mi raccontava queste cose, vedevo nei suoi occhi una certa amarezza mista a rassegnazione: a quei tempi non ci si ribellava e si sopportavano molte cose.

L’anno successivo, Clara rimase incinta e fu una gioia per tutti. e Aspettava la nascita del suo bambino per l’estate ed ebbe una gravidanza serena. Pensava più del solito alla sua mamma: in confronto a lei si sentiva fortunata e protetta nella nuova famiglia, grazie alla quale avrebbe potuto offrire a suo figlio una vita migliore, e non solo economicamente.
In una giornata tranquilla pensò di inviare una lettera ai suoi zii.

“Cari zii, come state? Noi stiamo bene e così spero di voi. Ci siamo sistemati bene qui, Giovanni lavora come ‘ciclista’ con suo fratello Giacomo a Pinerolo, lui non era capace a lavorare la terra come gli altri e ha trovato questo lavoro come meccanico.
Io faccio l’orto e i lavori in casa per tutta la famiglia, siamo in sei, ho tanto lavoro ma tutti mi trattano bene. Mia suocera è morta e adesso è malato anche mio suocero. Pensate che non si fida di quello che cucino io, si è messo in testa che voglio avvelenarlo.
Ero venuta in questa casa solo per curare mia suocera e invece sono ancora qui.
Ho una bella notizia da darvi, sono incinta, pensiamo che deve nascere quest’estate e speriamo che va tutto bene.
Ogni tanto penso al lavoro che ho lasciato e alle mie compagne, mi è dispiaciuto lasciare tutto ma sono contenta che ho fatto un buon matrimonio.
Adesso vi lascio, vado a prendere una cavagna d’bosc e vedere se le mie gallinelle mi hanno fatto qualche uovo.
Vi mando un forte abbraccio e spero di vederci presto. La vostra affezionata Clara”

(1945)

Arrivò il momento del parto e nessuno sapeva cosa fare, Giovanni andò a chiamare in tutta fretta la levatrice; quando arrivarono Clara stava soffrendo molto.

La “madama” fece preparare subito un pentolone d’acqua sul fuoco e dei teli puliti e si mise a disposizione della ragazza che si lamentava parecchio. Dopo i primi accertamenti, si rese conto che non sarebbe stato un parto semplice: il bambino si presentava dai piedi. Era una levatrice con una certa esperienza e questo non avrebbe dovuto essere un problema insormontabile.

Più volte la donna cercò di girare manualmente il piccolo a testa in giù, ma non ne voleva sapere, tornava sempre nella posizione sbagliata. Clara nel frattempo era sfinita e in un bagno di sudore. La levatrice fece qualche altro tentativo, ma poi dovette arrendersi. Chiamò in fretta e furia Giovanni e gli ordinò di portare al più presto la moglie in ospedale. Questi legò il cavallo al birocc, mise uno strato di fieno e vi adagiarono la ragazza che continuava a lamentarsi.

Dopo qualche peripezia arrivarono a destinazione, dove i medici si presero subito cura della giovane, che non sembrava avere molte speranze.

In quel periodo era cosa rara non partorire in casa, a meno che ci fossero gravi problemi, com’era toccato a Clara.

I medici decisero di praticare un taglio cesareo, che fortunatamente si concluse con la nascita di una bambina sana. Clara e Giovanni vollero chiamarla Luisa come la nonna.

Dopo qualche giorno, tornarono a casa: la bambina stava bene, ma la mamma aveva bisogno di rimettersi in forza. Chi avrebbe potuto aiutarla? Anche la zia era lontana.

Per qualche giorno gli uomini di casa si arrabattarono a cucinare. Clara non era ancora in grado di lavorare, riusciva appena a prendersi cura della piccola.

Un pomeriggio ricevette la visita di una giovane che abitava in una cascina non troppo lontana; si chiamava Lucia e aveva ricamato un bavaglino per la bambina. Chiacchierando, si resero conto di avere la stessa età e di amare l’arte del ricamo. Da qui nacque una splendida amicizia: Lucia, che non aveva ancora figli, si rese disponibile ad aiutarla finché non si fosse ripresa.

Nel frattempo, le avrebbe insegnato a ricamare.

Clara le raccontava della sua vita, e che era venuta ad abitare in quella cascina solo per accudire la suocera, e ripeteva sempre: ma sun ancura sì!

Luisa cresceva bene, la mamma si rimise in forze e ricominciò ad accudire tutti.

L’anno successivo il suocero peggiorò notevolmente e morì. Clara pensò che la sua permanenza in quella casa fosse ormai giunta al termine, ma si sbagliava.

In casa c’erano ancora i due fratelli non sposati: Clara aveva sempre molta biancheria da stendere. Questo per lei era un lavoro tranquillo, che le permetteva di pensare. Stendeva in “galeria”, la loggia al secondo piano della casa, dove veniva ricoverato il fieno per l’inverno. Di qui guardava verso la val Chisone, e quindi ripensava alla sua vita con la mamma e poi dai Guetermann. Le sarebbe piaciuto avere qualche notizia delle sue amiche e sapere come avevano vissuto l’ultimo periodo della guerra.

Nel 1960 uno dei fratelli muore e l’altro, ormai in tarda età, si sposa e va a vivere a Pinerolo. La famiglia si ridimensiona, così come il lavoro, e Clara inaugura un nuovo stile di vita: si occupa della figlia e del marito, delle sue amate galline, a passa molto tempo con la sua amica Lucia, ricamando e chiacchierando.

Luisa cresce amata da tutti e va volentieri a scuola; dopo le elementari, con la sua bicicletta si reca a Pinerolo e continua a studiare: frequenta l’avviamento e poi un corso che le permette di lavorare come impiegata presso un notaio. Clara ne è molto orgogliosa.

Grazie al lavoro e alle nuove amicizie, conosce un ragazzo che nel 1975 diventa suo marito. Purtroppo, però, vanno a vivere a Torino.

La mamma patì molto questa lontananza: la famiglia si era ridotta a due persone, e ogni domenica aspettava con ansia la visita della figlia.

Ricordo che Luisa veniva a farle visita per tutto il giorno, a volte per tutto il weekend. Nel tardo pomeriggio della domenica Clara caricava sulla bicicletta grandi borse di verdure del suo orto e si avviava a piedi insieme alla sua Luisa alla fermata dell’autobus. Dopo averla aiutata a caricare il tutto se ne tornava sola con tanta malinconia.

Una volta, appena tornata a casa, si accorse di non averle dato il barachin d’l lait che aveva preso appena munto dall’amica Lucia: si dannò così tanto che lo lanciò dalla finestra giù nel cortile. Andò bene al cane e ai gatti che se lo papparono tutto.

Si ritrovava spesso con la sua amica, parlavano dei loro figli: Lucia ne aveva tre, ancora molto giovani. Parlavano dell’orto, ma soprattutto ricamavano e facevano delle splendide maglie ai ferri.

Luisa le diede un bel nipotino che trascorreva molto tempo con la nonna; quai tutti i fine settimana e durante le vacanze estive stavano insieme. Gli raccontava tante storielle, si faceva “aiutare” nell’orto, giocavano nel cortile dove scorrazzavano le galline, andavano insieme dall’amica Lucia a prendere il latte fresco.

Alla fine del 1978, però, Clara rimane completamente sola in quella grande cascina: il marito muore improvvisamente d’infarto.

Sola nel suo dolore, si affeziona alle sue galline che raduna a sé chiamandole per nome e alla casa che custodisce tanti ricordi.

Luisa vuole che la mamma lasci quella casa troppo grande e troppo isolata e vada a vivere a Pinerolo, ma non la spunta. Grazie alla bicicletta, Clara è in grado di essere autonoma. Va a fare la spesa, va alla posta a ritirare la pensione, va dal medico, va a giorni alterni da Lucia a prendere il latte fresco, si sente indipendente.

Qualche tempo dopo, su insistenza della figlia, affitta ad una famiglia una parte della casa e ne nasce una bella amicizia. Gli inquilini hanno circa la sua età, hanno modo di chiacchierare del loro passato e si aiutano reciprocamente a coltivare i rispettivi orti.

Dopo qualche anno hanno bisogno di assistenza e vanno a vivere a Pinerolo vicino ai figli. Clara è di nuovo sola e comincia anche lei a perdere un po’ della sua autonomia, ma non demorde, lei non molla, non si muove da lì. La figlia viene a farle visita sovente, fermandosi qualche giorno con lei, così il suo amato nipote ormai grande.

Nel ‘91 Lucia si ammala gravemente ed è costretta a letto per mesi, per questo motivo si sposta nell’alloggio sottostante a quello del figlio per essere accudita. In questa occasione Clara si avvicina molto alla nuora di Lucia; ogni pomeriggio inforca la sua bicicletta e va a far visita all’amica allettata. Ricordo la sua finezza in queste sue visite: non si presentava mai senza prima aver chiesto il permesso telefonicamente, si portava le ciabatte pulite, che indossava prima di entrare in camera. Chiacchierava con l’amica e con i miei bambini che giravano per casa.

Prendeva volentieri con noi una tazza di caffè, sovente ci portava il bunet che le preparava la figlia.

Quando l’amica muore, per Clara è una grande sofferenza. Quasi senza accorgermene, instauro con lei un rapporto, come se avesse preso il posto di mia suocera.

Andavamo spesso a farle visita: portava con sé i bambini a raccogliere le uova e, mentre mangiavamo la merenda, ci raccontava della sua vita, specialmente del periodo passato dai Guetermann.

Continuava a vivere sola in quella grande cascina, coltivava ancora il suo orto, anche se questo si rimpiccioliva un poco ogni anno. Aspettava con ansia la visita della figlia, ma non sopportava le sue insistenze perché andasse a vivere a Pinerolo.

Non immaginava che da lì a qualche anno le sarebbe toccato un dolore terribile: la figlia; infatti, morì improvvisamente.

Era una domenica pomeriggio quando squilla il mio telefono, sento una voce dura e distaccata.

Mirella, sun Clara.”

“Oh Clara, buongiorno, come sta?”

Vuriju dije ca alè mortije Luisa.”

Non ho tempo di rispondere, che interrompe la telefonata. Avviso mio marito e ci incamminiamo verso casa sua, pensando che la notizia non sia vero, che Clara abbia improvvisamente perso la cognizione. Purtroppo no, la troviamo insieme ad alcuni cugini, chiusa in un silenzio pesante, direi assordante. Sembra un’altra persona, dura, fredda, staccata dalla situazione presente. Il suo unico problema pare quello di prepararci il caffè e informarsi sulla salute dei nostri figli. Non volle andare a vedere la figlia e non partecipò al funerale, nessuno la vide, anche nei giorni successivi, versare una lacrima. Teneva tutto il suo dolore chiuso dentro di sé, sotto una corazza inattaccabile.

Il nipote prese il posto della figlia nei suoi confronti: le telefonava mattino e sera, le faceva visita con le sue bambine tutti i fine settimana. E lei preparava pranzi succulenti; agnolotti fatti da lei, pietanze adatte alle bambine, e tanto altro da consumare durante la settimana a Torino.

Un po’ alla volta, incominciavano a notarsi le prime crepe nella sua autonomia: i figli dei suoi ex inquilini l’accompagnavano a far la spesa una volta alla settimana, e imparò a chiedere il mio aiuto per problemi di salute, quando aveva bisogno di iniezioni o di acquistare le medicine prescritte dalla dottoressa durante una visita domiciliare.

Se per caso il mio telefono squillava alle sette del mattino, sapevo già che era lei, che mi chiedeva di passare a prendere la ricetta prima di accompagnare i ragazzi a scuola. Al ritorno, quando passavo a portargliele, la caffettiera era pronta sul putagè, i biscottini in un antico piattino, e chiacchieravamo per un’oretta senza mai nominare la figlia: sembrava che l’avesse rinchiusa in un angolo del suo cuore inaccessibile ad altri. Capitò una sola volta che mi chiese se volessi prendere alcuni vestiti di Luisa, sarebbe stata contenta li avessi indossati.

Mentre apre l’armadio, la vedo sorridere leggermente e rischiararsi in viso, è come se la corazza volesse aprirsi a tutti i costi, resta socchiusa, finché mi porge delicatamente i vestiti. Mentre richiude l’armadio con la vecchia chiave, richiude allo stesso modo la sua corazza. Luisa resta solo con lei, di lei non si parla con nessuno.

Una mattina vide a casa mia alcune pizze preparate da noi e come se non ne avesse mai viste chiese:

Ma alè na pizza cula lì?

“Sì, l’abbiamo fatte ieri sera, ne v….”

Non mi ha lasciato finire la frase che me ne chiese un pezzo. Rimasi stupitissima, non era da lei chiedere. Mi chiama nel pomeriggio per dirmi che l’aveva scaldata pian pianot nel putagè, che le era piaciuta tanto e che era la prima volta che mangiava la pizza.

Da quel giorno, ogni volta che la preparavo, l’avvisavo che le sarebbe stata portata appena sfornata.

Nonostante l’età continuava a coltivare l’orto, ad allevare le sue galline, il suo cane, i suoi gatti. Ogni volta che passavo davanti casa sua la vedevo intenta a zappettare, e spesso mi fermavo per qualche parola; mi chiedeva sempre se avessi bisogno di uova o d’insalata, lei ne seminava sempre troppa ed era più brava di me nell’orto.

Qualche anno dopo, ricevo una brutta telefonata dal nipote: mi dice che la nonna è in coma all’ospedale. Mi racconta che come ogni sera le aveva telefonato e stava bene, ma al mattino non aveva risposto alla nuova chiamata. Riprova appena arrivato al lavoro, ma nulla. Esce dall’ufficio e si precipita a casa sua, suona inutilmente il campanello, infine si arrampica al cancello – non aveva con sé le chiavi – entra in casa e la trova a terra incosciente. Era caduta la sera prima ed era rimasta a terra tutta la notte.

Decido di andare subito da lei. La vedo immobile, con gli occhi semi chiusi ed un grosso livido attorno all’occhio destro.

Mi invade un senso di enorme tenerezza, mi siedo, le prendo la mano, la chiamo per nome, le dico chi sono e lei, immobile con tutto il resto del corpo, stringe la mia.

 

 

 

 

 

Autore: Mirella Viola
Data: 27 dic 2022