LA SIGNORA TEDESCA
Meiner Mutter
Als sie nun aus war, ließ man in Erde sie
Blumen wachsen, Falter gaukeln darüber hin...
Sie, die Leichte, drückte die Erde kaum
Wieviel Schmerz brauchte es, bis sie so leicht ward!
Bertolt Brecht
[A mia madre]
Quando non ci fu più, la misero nella terra.
Sopra di lei crescono i fiori, celiano le farfalle…
Lei era leggera, premeva la terra appena.
Quanto dolore ci volle per farla così leggera!
Gonars, 22 novembre 1945
Carissima Hanne,
finalmente sono riuscita ad avere una matita e della carta per poterti inviare una lettera. La mia amica Delfa, con la quale vado a raccogliere le foglie di tabacco, mi ha fatto questo regalo.
Ora spero tanto che questa mia ti arrivi. Scriverò l’indirizzo della tua casa, dove abitavi prima dei bombardamenti, anche se tutto il quartiere, o meglio tutta la città, è stata distrutta, e chissà dove ti trovi ora.
Spero che il servizio postale possa fare qualcosa per rintracciarti e farti avere la mia lettera. Sei l’unica amica, cugina cara, a cui posso rivolgermi e confidarmi.Qui la vita è durissima, non abbiamo quasi niente da mangiare e fa un gran freddo e mia suocera è una donna crudele.
Ma tu non sai niente di noi, e ci vorranno molte lettere per raccontarti tutto.
Tu come stai? E Josef si è salvato?
Fammi sapere di te e di quelli che conoscevo, delle nostre amiche che ho amato tanto, di quel ragazzo dai capelli rossi che lavorava alla biglietteria della stazione.
Io ho solo tristezze, credimi, l’unica cosa bella è Paolo, il mio piccolino.
È nato il 9 maggio sotto feroci bombardamenti. Non si sapeva più dove ripararsi, poi io e Peter abbiamo trovato un rifugio molto profondo e sicuro e lì ho cominciato ad avere le doglie.
Non era ancora il tempo, stava nascendo troppo presto, ma saranno stati tutti quei grandi spaventi che ci siamo presi, quei fortissimi boati quando sganciavano le bombe, quegli aerei che volavano così bassi e che ti distruggevano i timpani, a far nascere prima la creatura.
Una donna cecoslovacca mi ha aiutata, a dire il vero l’ha fatto solo perché Peter era italiano e lo disse chiaramente – lo faccio per te, per tuo figlio, non certo per tua moglie che è tedesca – e così dicendo mi sputò in faccia, ma poi mi aiutò a far nascere Paolo.
Io non capirò mai perché tutti ce l’hanno con gli austriaci come con i tedeschi. Noi siamo diversi, noi siamo stati invasi, ma forse perché Hitler è nato in Austria, chissà, fatto sta che anche qui in Friuli, quando passo per strada e incontro dei ragazzacci, mi sputano addosso, insultandomi perché sono tedesca.
Lasciamo perdere. Paolo è nato sottopeso, senza le unghie e le sopracciglia, ed io avevo perso tutto il latte, ma il piccolo era bello, ben proporzionato.
Ora ha sei mesi ed è l’unica mia forza, l’unica mia speranza. Tutto quello che subisco e sopporto, lo faccio solo per lui.
Adesso ti lascio, mi è finito il foglio e poi voglio spedire in fretta la lettera, per sapere se riuscirai a riceverla.
Se la ricevi, ti prego di rispondermi subito. Passerò questi giorni ad aspettare il postino.
Non mi dimenticare.
Un bacio, Mitzy
CAPITOLO 1
Quando Mitzy andò a imbucare la lettera per Hanne, tornò con il pensiero al periodo in cui era stata bigliettaia sulla tratta ferroviaria che portava da Linz in Austria a Monaco in Baviera. Si sentiva bella nella sua divisa nuova, con il berretto blu e lo stemma dell'aquila sul davanti. Sapeva di essere attraente, grazie ai lunghi capelli nerissimi e lisci, di cui andava orgogliosa. Era alta, snella e i viaggiatori, a cui doveva controllare il biglietto, non mancavano di guardarla con ammirazione. Lei, però, non faceva caso ai loro sorrisi e apprezzamenti, perché la sua mente era altrove. Il suo pensiero era sempre rivolto a Pietro, il fochista del treno, quel bell’italiano dalla pelle e dai capelli scuri, tirati indietro con la brillantina, come Rodolfo Valentino.
Quando scendeva dal treno, in verità, Pietro era tutto nero, sporco di fuliggine, ma le sorrideva con denti bianchissimi e occhi maliziosi, a cui non poteva resistere. Pur essendo italiano, Pietro conosceva bene il tedesco e ancor meglio il dialetto austriaco. Solo di rado faceva errori di grammatica, e il suo accento straniero lo rendeva ancora più affascinante.
Il loro, era stato un amore appassionato e profondo, pensò Mitzy. Erano giovani, poco più che ventenni, allegri e spensierati.
“È durato troppo poco”, sospirò.
Nonostante gli zoccoli di legno, cercava di camminare in fretta, sul sentiero sterrato che portava alla posta. La guerra aveva rovinato tutto, riempiendo d’ansia e paura i viaggi su quel treno, preso spesso di mira dagli aerei alleati.
Quando il cielo si oscurava e il rombo dei caccia lacerava l'aria, il treno si fermava: tutti scendevano di corsa e si rifugiavano sotto i vagoni, appiattiti al suolo dal terrore. Pietro e Mitzy, con la faccia schiacciata sulle traversine, si stringevano le mani: l'unica cosa che chiedevano era di morire insieme, non avrebbero potuto sopravvivere l'uno senza l'altra.
Poi gli aerei si abbassavano sempre più, mitragliavano il convoglio e velocemente si rialzavano, volando su altri luoghi da distruggere.
Pietro, Mitzy e tutti gli altri viaggiatori sgusciavano fuori, increduli di sentirsi ancora vivi, felici di poter ancora vedere il cielo.
Se i danni non erano troppo gravi, si riprendeva la corsa.
Il treno passava anche da una cittadina di nome Dachau, e dal finestrino si vedeva un grande campo circondato da filo spinato. All’interno c'erano uomini con una divisa a righe, che pareva un pigiama. Facevano timidi cenni di saluto ai viaggiatori.
A Mitzy avevano detto che erano prigionieri, che avevano fatto sicuramente qualcosa di male, erano probabilmente dei ladri, dei malfattori, tuttavia era impressionata dalla loro magrezza. Si sa che in tempo di guerra c'è poco da mangiare per tutti, e a maggior ragione per chi sconta una pena per aver fatto qualcosa contro la legge, ma quegli sguardi imploranti, quelle guance scavate, quelle spalle curve e l'andatura dimessa la impietosivano.
Decise allora di portare, nella cartella da bigliettaia, oltre al necessario per il suo lavoro, anche qualche pagnotta, che cercava di risparmiare a tavola.
Quando il treno si avvicinava al campo circondato dal filo spinato, Mitzy si sporgeva da un finestrino e le lanciava ai prigionieri. Questi facevano a gara per raggiungere il pane e afferrarlo all'istante.
Poi il treno si allontanava e Mitzy rimaneva ancora un momento al finestrino, salutando con la mano. In cambio riceveva sorrisi vacui e sguardi disperati.
“Non capivo proprio niente”, disse tra sé, entrando nell’ufficio postale per comprare il francobollo e spedire, quasi con trepidazione, la sua lettera alla cugina Hanne.
Questa cugina, prima della guerra, abitava nel suo stesso caseggiato, vicino alla stazione. Erano i palazzi che lo Stato aveva a suo tempo costruito per i ferrovieri e le loro famiglie e anche Hanne lavorava negli uffici della stazione di Linz, mentre i rispettivi papà erano macchinisti, quindi tutti loro avevano diritto a un appartamento in quel quartiere.
Hanne aveva un paio d’anni più di Mitzy, era generosa e coraggiosa. Una bella ragazza, che non si rendeva conto di quanto potesse piacere agli uomini.
Più che cugina, per Mitzy era la sua migliore amica. Si confidavano ogni cosa e spesso andavano al Donau Kaffee a bere una cioccolata calda, sentendosi delle gran signore.
“Chissà se quel locale c’era ancora?”, si chiese Mitzy. “Ma no, che vado pensando, sarà stato tutto distrutto. L’importante è che Hanne, in qualche modo, riceva la lettera.”
Con questa speranza, che non voleva alimentare troppo, ritornò a casa senza entusiasmo.
Linz, 20 dicembre 1945
Mia carissima Mitzy,
quando il postino questa mattina mi ha consegnato la tua lettera, non ci potevo credere.
Le gambe mi tremavano, il cuore mi batteva forte e ho dovuto sedermi, prima di aprire la busta. Allora sei viva! Viva! Viva! Dio mio! Tra tutte queste morti ho trovato la tua vita. Potessi abbracciarti, ti soffocherei di baci. Sono così felice, che riesco solo a piangere.
In Comune abbiamo dovuto indicare, accanto al nuovo indirizzo, anche quello vecchio, proprio per farci pervenire eventuale posta. È così che sono riuscita ad avere la tua lettera. Ora ti scrivo subito dove abito e magari la prossima lettera mi arriva più in fretta.
Mi chiedi come sto. Oggi che sono così felice per il tuo scritto, ti direi che sto bene, ma in realtà qui è tutto molto difficile e io mi sento sola.
Con il bombardamento feroce della stazione e delle nostre case, ho perso tutto anch’io, e più che altro ho perso quelli che amavo. Non ho più famiglia, non ho quasi più amici. Tutti morti.
Io mi sono salvata per miracolo, perché quel giorno ero andata a trovare mia zia, che abita in campagna, per vedere se poteva darci qualcosa da mangiare.
Josef è ritornato, sì, ma non ha più le gambe e non è più lui. Gli orrori della guerra lo hanno fatto impazzire. Ora è rinchiuso in un istituto, da dove non uscirà più.
È tutto così triste qui e non so con chi parlare.
Io faccio le pulizie nei bagni della stazione e mi ritengo già molto fortunata.
Il tuo amico della biglietteria ha perso una gamba durante il bombardamento e adesso è a casa con la moglie. Comunque si è salvato, e se gli danno una protesi, potrà tornare a fare il suo lavoro, tanto stava seduto dietro lo sportello, quindi non ha bisogno di camminare tanto.
Io mi sento svuotata, derubata di tutto, violata nei miei sogni e nel mio futuro.
Non ho voglia di pensare, vado avanti per inerzia: mi alzo al mattino, vado al lavoro, torno la sera, cerco di trovare qualcosa da mangiare e poi vado a dormire, niente di più. Quando non lavoro, dormo tutto il giorno.
Ma ora, nel tempo libero, scriverò fiumi di lettere a te, che ne dici?
Linz è completamente distrutta, ci sono macerie ovunque, palazzi sventrati, fabbriche chiuse, giardini bruciati. La gente va in giro stracciata e brutta, a cercare cibo o qualcosa per coprirsi, perché qui fa un gran freddo, come da te.
Viviamo con il mercato nero e il baratto, altro non possiamo fare.
Capisco dal tuo scritto che anche tu te la passi male, mi dispiace molto.
Ora possiamo scriverci e trovare reciproca comprensione e conforto. Ti racconterò qualcosa di più nella prossima lettera, ora ho fretta di spedire questa, così tu non stai più ad aspettare.
Ti abbraccio forte, ti penso continuamente. Scrivimi presto anche tu.
La tua Hanne
CAPITOLO 2
Imbucata la lettera, Mitzy ritornò verso casa. Camminava più adagio che all’andata. I piedi le dolevano per le vesciche e i geloni causati dagli zoccoli. I geloni li aveva anche alle mani, a forza di lavare i panni di suo figlio nell’acqua gelida del torrente. In quella stagione doveva prima rompere il ghiaccio con un bastone, per poter fare il bucato.
Giuditta, sua suocera, teneva sempre un paiolo d’acqua sulla stufa, ma se vedeva passare Mitzy in cucina con i pannolini sporchi, apriva la porta e gettava l’acqua calda nel cortile.
Aveva avuto ragione Edda, quella volta che l’aveva invitata a casa sua. Edda era una cara ragazza che Mitzy conosceva, perché aiutava la mamma nel negozio di merceria. Era un po’ più giovane di Mitzy, due guance rubiconde e trecce bionde.
“Dài, Mitzy, vieni da me oggi pomeriggio, che ti leggo le carte” le aveva bisbigliato quel giorno. “Lo sai che mia madre legge i tarocchi: io l’ho sempre spiata e ho imparato molto. Fidati, vedrai che ti racconterò il tuo futuro.”
Mitzy, che non aveva ancora vent’anni, si era entusiasmata all’idea di quel gioco.
L’appartamento era piccolo e ben curato. Edda la fece sedere nel salotto pieno di ninnoli e fiori finti. Il sole entrava obliquo da una finestra che dava su un cortile interno. Mitzy era curiosa, ma anche un po’ spaventata.
“Che hai? Paura? Su, vedrai che ti leggerò cose belle!”
Così dicendo, l’amica cominciò a smazzare le carte e a disporle in un ordine solo a lei noto, sul piccolo tavolino difronte a Mitzy.
Le cose che lesse non erano belle, però. Le disse che sarebbe andata via con un uomo dalla pelle scura e con un bambino in braccio. Sarebbe andata lontano e avrebbe attraversato una grande acqua, ma la cosa più terribile è che le predisse un fiume di lacrime.
Edda stava per continuare, quando sentirono la chiave nella toppa. La mamma di Edda era tornata prima del previsto, così la ragazza aveva arraffato tutte le carte, nascondendole nell’armadio in fretta e furia.
Ora, ripensandoci, Mitzy non poteva che dare ragione alla predizione di Edda. Infatti se n’era andata lontano dalla sua terra, con un uomo che aveva la pelle molto più scura della sua, e con il suo piccolo in braccio. Aveva attraversato il mare di Venezia e aveva pianto, aveva pianto tanto.
Lei non avrebbe mai voluto andar via dall’Austria, Peter si trovava bene lì, non aveva problemi nemmeno con la lingua. Entrambi erano convinti, che con il matrimonio e un neonato, nessuno li avrebbe cacciati dal paese. Ma i bombardamenti erano stati troppo devastanti, non c’erano più le case né il lavoro.
Il funzionario statale, a cui si erano rivolti, aveva detto che Mitzy avrebbe potuto restare nella sua patria con il bambino, ma lui, anche se marito, avrebbe dovuto tornarsene in Italia: non c’era posto per gli stranieri.
Cosa poteva fare la povera Mitzy, senza più casa, genitori, parenti, lavoro, se non seguire il marito? In Friuli c’era una casa, quella della mamma di lui, che sicuramente li avrebbe aiutati.
Con quell’illusione avevano intrapreso il viaggio della speranza.
CAPITOLO 3
Un treno merci partiva dalla stazione di Salisburgo con destinazione Italia: sui suoi vagoni erano stati caricati uomini, donne, bambini di tutte le età, masserizie varie e qualche animale.
Mitzy e Peter avevano poche cose, che stavano in due valige sgangherate. Il piccolo Paolo aveva la sua carrozzina, che i suoi genitori avevano recuperato da due contadini residenti fuori Linz, un miracolo in quel momento. In cambio avevano voluto un paio di scarpe e della biancheria.
Grazie a quella visita in campagna per l’acquisto della carrozzina, i due sposi si erano salvati dal bombardamento che aveva distrutto la loro casa.
Già il 13 aprile del ‘45 Vienna era stata presa dall’Armata Rossa, e un paio di settimane dopo le forze alleate occidentali raggiunsero il resto del paese. Fino alla resa definitiva dei nazisti, l’8 maggio, sulle città austriache continuarono a incrociarsi i bombardamenti dei francesi, degli inglesi, dei russi e degli americani.
Il 9 maggio, l’Unione Sovietica dichiarò al mondo la vittoria sul nazismo; proprio in quel giorno nacque il bimbo di Mitzy e Peter.
Salirono quindi su quel treno merci, che li avrebbe portati via per sempre dall’Austria.
Mitzy piangeva, aveva paura. Paura di dover andare in un paese straniero, di cui non conosceva nulla, tanto meno la lingua. Paura di non essere accettata dalla famiglia di lui, e soprattutto paura per il suo piccolo così fragile, che lei non sapeva come nutrire, avendo perso il latte per i grandi spaventi subiti.
Si sistemarono sulla paglia e cercarono di appisolarsi un po’. Nel vagone c’erano altri italiani, scuri in volto e silenziosi.
Il treno andava avanti lentamente, fermandosi a tutte le stazioni. Spesso doveva arrestarsi, perché le traversine o il binario stesso erano danneggiati dalle bombe. Allora tutti scendevano dal treno per prendere un po’ d’aria, per andare a fare i bisogni dietro ad alberi e cespugli, per accendere un fuoco e preparare qualcosa da mangiare. Peter faceva riscaldare l’acqua e ci aggiungeva un po’ di zucchero per darla al bambino, altro non possedeva. Quando si sentiva il fischio del treno che riusciva a ripartire, bisognava buttare via tutto e spegnere i fuochi in fretta e furia. A volte Peter e sua moglie non riuscivano nemmeno a dare quel po’ d’acqua bollita al loro piccolo.
I compagni di viaggio, in quel vagone, erano di poche parole e anche un po’ imbarazzati a viaggiare con una tedesca. Ma il bimbo, che non piangeva nemmeno più, faceva una gran pena a tutti, e non sapevano come fare per aiutarlo. Qualcuno aveva del cibo e ne regalava un po’ a Mitzy, con la speranza che la donna potesse riprendersi e riavere un po’ di latte, ma tutto fu inutile.
A volte il treno doveva star fermo per due o tre giorni, perché bisognava risistemare un tratto molto danneggiato. Allora gli uomini cercavano cibo, avventurandosi nei campi o in case vicine. Era già estate e si riusciva a trovare frutta e ortaggi, il più delle volte si rubava, ma il cibo era sempre troppo poco. Una volta Peter aveva acciuffato una gallina ed era riuscito a cuocerla sul fuoco acceso dai compagni di viaggio. Era stato osannato come se avesse trovato un tesoro.
Si aveva sempre fame, sempre.
Erano già passati tanti giorni e il viaggio sembrava non aver fine. Una mattina, attraverso le sbarre di quel vagone merci, Mitzy vide un lago enorme, non riusciva a vedere l’altra sponda, sembrava profondo e l’acqua era blu. Erano arrivati a Venezia e il grande lago era il mare, che Mitzy non aveva mai visto nella sua vita.
“Edda aveva ragione” pensò. Si strinse al suo Peter e decise di non piangere.
CAPITOLO 4
La casa della suocera, a dire il vero una casupola, era un po’ fuori dal paese. Al piano terra si trovava la cucina, una grande stanza, con un’enorme stufa a legna, un tavolo e sei sedie, una cassapanca e una piccola credenza con piatti tutti spaiati e bicchieri opachi.
C’erano due finestre, una vicino alla porta d’ingresso e un’altra che dava sul retro, dove scorreva un fiumiciattolo. Una ripida scala in mattoni portava al piano superiore, dove vi erano due camere da letto. Il pavimento delle camere era di assi di legno e dalle fessure si poteva vedere qualcosa della cucina sottostante.
Davanti a casa si apriva un’aia, dove scorrazzavano le galline e starnazzavano due oche. Di lato c’era un piccolo orto, che Giuditta coltivava ricavandone un po’ di verdura. La cucina era calda e accogliente e sul fuoco c’era sempre un gran paiolo con dell’acqua calda; il piano di sopra non era riscaldato.
Mitzy non poteva stare in cucina, Giuditta non la voleva, le faceva sempre segno con la mano di andare sopra e anche alla svelta.
Giuditta aveva poco più di cinquant’anni, piccola di statura, magra e nervosa. Si alterava per un nonnulla, alzando la voce stridula e sgradevole. Era vedova e uno dei suoi tre figli, Guarino, era già morto. Il primogenito Gino era il suo prediletto, mentre Pietro – Peter, come lo chiamava Mitzy – aveva tradito le sue aspettative, portando in casa una tedesca con un figlio. Giuditta aveva avuto altri progetti per Pietro: avrebbe voluto che sposasse una ragazza del paese, di famiglia benestante, ma così non era stato, e questa nuora non poteva accettarla.
“Tu puoi stare qui, perché sei mio figlio” aveva detto, aspra, quando Pietro era tornato a casa, “ma tua moglie non deve farsi vedere da me. Che se ne stiano su in camera il più possibile, lei e il suo marmocchio.”
Anche quel giorno, Mitzy, entrando in casa, salì rapida la scala e andò in camera, dove Peter era a letto con il piccolo Paolo.
Per scaldarsi e non ammalarsi, quand’erano in camera, stavano sempre tutti e tre nel letto. Ormai era inverno pieno, i vetri della finestra erano tutti ricamati dai disegni del gelo.
Peter stava quasi tutto il giorno a casa con il piccolo: non aveva trovato nessun lavoro, niente da fare, nemmeno per poche lire.
Mitzy, invece, lavorava nel grande impianto di Gris di Bicinicco, dove si essiccava e confezionava il tabacco.
Da diversi decenni nella zona si coltivava e lavorava tabacco, soprattutto quello americano, biondo e dolce, il Virginia Bright.
Mitzy si occupava soprattutto della scelta delle foglie, che infilzava su telai, dove venivano essiccate. Il lavoro era lungo e faticoso, con quell’odore acre delle foglie, con l’occhio del caposquadra sempre addosso, ma lei era contenta di portare a casa qualcosa, anche se poco. I pochi soldi le venivano subito requisiti da Giuditta, che accampava ogni diritto, dato che doveva sfamare tre bocche, come diceva.
Lavorava di fianco a Delfa, una ragazza del paese, di qualche anno più giovane di lei. Delfa, il suo nome intero era Adelfa, era alta e magra, e si lagnava continuamente per la fame. Aveva un grande appetito, che non riusciva mai a soddisfare, ma questo era un problema di tutti, all’epoca. Era innamorata di Tunin e sperava di sposarlo, prima o poi, anche se non era il momento di parlare di matrimonio, non c’erano abbastanza soldi per sposarsi.
Per Delfa, Mitzy provava una certa simpatia istintiva, le piaceva per quel sorriso allegro e lo sguardo malizioso, ma non è che potesse parlare con lei: si capivano a gesti e con qualche parola di tedesco, che Delfa ricordava, mentre Mitzy capiva proprio poco della sua lingua. Il dialetto friulano era veramente ostico, e tutti, in paese e in fabbrica, parlavano solo quello.
A casa Mitzy dialogava in tedesco con Peter; anche Guditta lo capiva abbastanza, dato che era stata in Germania, quando tutta la famiglia si era trasferita là per lavorare nelle fornaci.
Prima o poi, avrebbe imparato quella lingua tremenda, pensava Mitzy. L’importante era che il suo bambino stesse bene.
Ora era più tranquilla, ma mesi addietro il medico del paese aveva sentenziato che Paolo sarebbe morto da lì a poco perché denutrito, inoltre aveva la gastroenterite, visto che non aveva mai bevuto il latte materno.
Peter era disperato: a tutti, in paese, raccontava che il suo piccolo rischiava di morire, così un giorno si presentò a casa loro una signora, bella in carne, giovane e sorridente.
“Ho saputo che qui c’è un bimbo che ha bisogno di latte, vero? Se volete, io posso aiutarvi. Ho avuto da poco un bambino e ho veramente tanto latte, così tanto che le mammelle mi fanno male e il mio piccolo non riesce a prenderlo tutto. Volete provare a darmi il vostro? Vediamo se si attacca e se gli piace il mio latte, che ne dite?”
A tale proposta, Mitzy e Peter rimasero increduli. Una fortuna così grande non se la sarebbero nemmeno sognata.
Giuditta fece accomodare la giovane madre in cucina e Mitzy corse a prendere Paolo.
La donna, di nome Elvira, prese il piccolo tra le braccia e gli porse il seno.
Paolo era debole e sonnolento, ma insistendo un po’ Elvira riuscì a fargli prendere il capezzolo. Il bimbo cominciò a succhiare, piano piano, poi si staccava, si riaddormentava, ma con pazienza e compassione, la balia riuscì a fargli prendere un po’ di latte.
“Torno più tardi, così ci riproviamo” disse, stringendo le mani di Mitzy, che non parlava, ma piangeva.
Ritornò puntualmente tutti i giorni, a intervalli di tre, quattro ore, e dopo qualche giorno Paolo si attaccava al seno di Elvira con più facilità e naturalezza.
A volte Elvira veniva con il suo bambino e li allattava tutti e due contemporaneamente. Così Paolo ebbe un fratello, il cosiddetto fratello di latte, e riuscì a riprendersi e a vivere.
Sicuramente Elvira chiese qualcosa in cambio a Peter o a Giuditta, ma Mitzy non lo seppe mai.
Lei era felice e trepidante tutte le volte che dava Paolo ad Elvira, ma era anche un po’ gelosa, per non aver potuto allattare la creatura che amava di più al mondo, per non aver potuto consolarla quando piangeva per la fame e non aver vissuto quei momenti di tenerezza dolcissima, che trovava anche nelle immagini sacre della Madonna col Bambino.
Gonars, 12 gennaio 1946
Mia cara Hanne,
la tua lettera mi ha dato speranza e una gioia grandissima nel saperti viva.
Sapere che in Austria c’è ancora qualcuno che mi pensa e mi vuol bene, mi darà la forza di continuare a vivere.
Qui fa tanto freddo, nell’aia ci sono mucchi altissimi di neve che Peter ha spalato per avere l’accesso in casa. C’è un gran silenzio, nemmeno il rumore del ruscello si sente più, è tutto ghiacciato. Ho paura per Paolo, che si raffreddi, che si prenda la tosse, ora che riesce a mangiare e a bere il latte di mucca. Sono sempre così in ansia per lui. Peter ogni tanto lo porta sotto, accanto al fuoco, ma io non posso scendere spesso, Giuditta non mi sopporta.
L’altro giorno mi ha chiesto di pulire il pavimento della cucina e di passare la cera rossa. Ho fatto una gran fatica a stendere quella cera e poi, quando tutto era pulito, lei ha aperto la porta di casa e ha fatto entrare le galline. Se non è cattiveria questa, non so come chiamarla.
Peter protesta un po’, o almeno credo, dato che parlano in friulano, ma lei si arrabbia subito e di sicuro lo minaccia di mandarci via, perché lo so, lo fa sempre, e noi dove andremmo? Qui c’è una gran miseria e di lavoro ce n’è pochissimo. Non so che dire.
Ma raccontami un po’ dei nostri amici; ti ricordi, quando davamo appuntamento a Friedrich e a Karl in un caffè del centro e poi andavamo in un altro, prendendoci gioco di loro? Che stupide, ridevamo per un nonnulla. Quei due ci erano simpatici, ma erano noiosi, un po’ melensi, e alla fine ci stufavamo, non è così?
Friedrich non mi dispiaceva, aveva un’aria così nobile, oserei dire, e aveva quel cane addestrato in modo spettacolare. Friedrich e Karl erano tutt’e due alti e ben piantati, sapevano nuotare benissimo.
Ti ricordi quando andavamo al lago d’estate? Tu ti facevi preparare dalla mamma quei panini prelibati con burro cetrioli e speck. Mai più mangiati panini così, mmmm… che acquolina al solo pensiero. Io ho sempre avuto paura dell’acqua e, nonostante Friedrich volesse insegnarmi a nuotare, rimanevo rigida e spaventata, poi con la scusa di insegnarmi a nuotare mi metteva troppo le mani addosso e io non volevo. Però, quei pomeriggi al lago, buttati sull’erba a raccontarci le nostre semplici vite, sono stati bellissimi, vero?
Verso sera riprendevamo il treno e tornavamo in città. Il viaggio era brevissimo e arrivate alla stazione centrale di Linz, le nostre case erano proprio lì accanto, tutto facile. Tornando a casa, noi due spettegolavamo sui ragazzi e sghignazzavamo come delle sceme. Come facevamo a ridere con tanta facilita? Bastava un niente, una battuta, uno sguardo, una rapida intesa, che si scoppiava a ridere e non la si finiva più. Poi ci abbracciavamo e ci davamo appuntamento per il giorno dopo, tutte le volte così, come se non dovesse finire mai.
Ti abbraccio anche ora e ti prego di scrivermi presto.
La tua Mitzy
CAPITOLO 5
Le sere d’inverno in casa di Giuditta erano lunghe e silenziose.
Si cenava presto. In tavola si portava la polenta, quella bianca, che Giuditta tagliava con lo spago. Fette sottili, perché la polenta non doveva finire subito, meglio se avanzava per il giorno dopo, che sarebbe stata arrostita poi nella stufa. A Mitzy piaceva tanto quella polenta, ma forse le sarebbe piaciuta qualunque cosa, vista la fame.
Una cosa di cui andava assai ghiotta era il salame fritto con le cipolle. Era una prelibatezza cucinata di rado, forse solo quando qualcuno ne regalava uno, in cambio di uova o verdura dell’orto. Le larghe fette a grana spessa sfrigolavano sul fuoco, emanando un odore pungente e deciso. In genere Giuditta ne dava una a suo figlio, che la divideva con Mitzy.
Peter, in silenzio, divideva sempre tutto con lei, anche l’uovo sodo, ce n’era sempre uno solo per tutti e due. Paolo, dopo aver bevuto il latte, sbocconcellava un po’ di polenta e poi gattonava sotto il tavolo.
Giuditta parlava poco, sempre in friulano e solo con Peter. Aspettava notizie dalla Francia, dov’era rimasto il figlio maggiore e chissà quando l’avrebbe rivisto. Gino, il suo prediletto, il primogenito, quello che non l’aveva delusa.
Non parlava mai del più piccolo, Guarino, quel figlio bellissimo con i capelli ricci e la faccia affilata, che sembrava un attore del cinema. Il suo sorriso, che riempiva tutta la faccia illuminando gli occhi nerissimi, conquistava davvero tutti. Intelligente e spigliato, parlava bene il francese e il tedesco, appresi quando tutta la famiglia era andata in quelle nazioni per lavorare nelle fornaci.
All’inizio della guerra, Giuditta era tornata in Italia, accompagnata dal marito e da Guarino, che allora aveva quasi vent’anni. La situazione era difficile, lavoro poco, e molti uomini già al fronte. In paese, c’era una postazione tedesca, insediata nella caserma dei carabinieri.
I tedeschi si capivano poco e male con i residenti, e qualcuno venne a sapere che il figlio di Giuditta avrebbe potuto fare da interprete, per agevolare un po’ tutti.
Così accadde che il ragazzo spesso e volentieri si recasse in caserma per tradurre dal tedesco all’italiano e viceversa.
Il comandante nazista era un giovane di circa trent’anni, da poco arrivato in paese; non conosceva una parola d’italiano, o meglio di friulano, e gli faceva comodo servirsi del ragazzo, che lo aiutava a impartire ordini e a farsi capire.
Guarino, orgoglioso, portava a casa qualche soldo, che la madre usava per fare la spesa.
Il marito di Giuditta non riusciva a guadagnare niente, anzi, se lei non faceva attenzione, le rubava anche quei pochi soldi per spenderli in osteria.
Andarono avanti così per più di due anni. Tutto sommato, non ci si poteva lamentare: quello che il ragazzo guadagnava era sufficiente per il cibo e la legna.
Una mattina d’inizio autunno, dopo l’8 settembre, si presentarono in cortile due uomini armati di mitragliatrice, erano partigiani.
“Dobbiamo parlare con vostro figlio Guarino” esclamarono in tono perentorio. “Sappiamo che è in casa, fatelo uscire, se no mitragliamo tutto e tutti.”
Giuditta rimase impietrita in mezzo al cortile. Non riusciva a dire nulla, non capiva che cosa volessero da suo figlio, non poteva articolare nemmeno una parola, paralizzata dalla paura e dal cattivo presagio. Guarino uscì e le disse: “Mamma, stai tranquilla, torno subito, non ti preoccupare, non è niente!” Così dicendo, si mise la giacca su una spalla e aspirò una boccata dalla sigaretta che si era acceso.
La madre lo vide andar via in mezzo a quei due uomini. Cadde per terra, tra la polvere, e incominciò a urlare, con la disperazione che provano solo le madri per un figlio condannato. Guarino non tornò più a casa, né quella sera, né il giorno dopo.
Giuditta e il marito coinvolsero mezzo paese per trovare il ragazzo. Lo cercarono ovunque, nei campi, nei boschi, tra i canneti, per ben quindici giorni.
Finalmente lo trovarono, lontano, in un campo di granoturco: morto, trucidato, torturato selvaggiamente prima di essere ucciso. L’avevano picchiato, gli avevano tagliato la lingua e tolto gli occhi. Avevano deturpato il suo bel viso giovane e sorridente.
Chissà, forse avevano qualche ragione per odiarlo così. Forse il ragazzo aveva parlato, tradito, spiato qualcuno… non lo possiamo sapere. Certo, fu giustiziato in modo raccapricciante.
Tanto tempo dopo, qualcuno disse a Peter che gli assassini di suo fratello erano scappati in Venezuela, e non se ne seppe più nulla.
Giuditta fu sconquassata, svuotata, dilaniata dalla perdita atroce. Muta e arida, sentendosi forse colpevole di aver lasciato che il figlio facesse quel mestiere, si chiuse caparbia in un tormento senza fine. Se qualcuno cercava di consolarla, o le chiedeva qualcosa, i suoi occhi rimanevano asciutti e duri, la sua voce si faceva aspra. Da quel giorno la pietà non le appartenne più. Fu così che Mitzy la conobbe.
Terminata la cena, Mitzy lavava i piatti, rigovernava, cercando di restare il più possibile in cucina, a godere il caldo e il profumo di legna.
Poi si andava su, in camera, e tutti e tre si stringevano nel letto, con il materasso che scricchiolava per le foglie di granoturco secche. Lei trovava conforto tra le braccia del suo uomo, accanto al respiro dolce del bambino, e cercava di non piangere.
Linz, 2 febbraio 1946
Mia cara Mitzy,
questa volta la tua lettera ha impiegato meno tempo a raggiungermi, meno male. Vorrei riceverne una ogni giorno!
Nella tua lettera mi parli di Karl e di Friedrich. Sì, me li ricordo benissimo, ma non so più nulla di loro, purtroppo. Mi hanno detto che avevano indossato la divisa delle WAFFEN-SS e forse sono morti al fronte o sono riusciti a scappare.
Lo sai, cara, molti di noi hanno aderito al nazionalsocialismo di Hitler, perché ci aveva promesso case e lavoro. Molti gli hanno creduto, lo hanno seguito e non si sono voltati indietro a vedere che cosa veramente succedeva.
Se ci pensi, ha dell’incredibile: tanta gente crede ancora che Hitler non sia morto, ma che sia riuscito a fuggire e che tornerà a sistemare le cose.
Anch’io, all’inizio, ero ignorante e superficiale: non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Anche il prete in chiesa ci diceva che unirsi alla Germania era cosa buona, ricordi? Quando si vive in difficoltà, quando il futuro non ti pare degno delle tue aspettative, e arriva qualcuno che ti promette tutto quello che desideri, aiutato da giornali, radio, uomini potenti e di chiesa, tu che sei inesperto e vieni dal popolo, come fai a non credergli?
Penso che sia andata un po’ così tutta la faccenda, e anche Karl e Friedrich l’avranno pensata in questo modo. Ma può essere una giustificazione? Non credo.
Ora come faremo a venirne fuori? Non so, qualcuno dovrà aiutarci, da soli non ce la faremo.
Scusa lo sfogo. Stando da sola, mi arrovello in questi pensieri e mi pare di capire tutto, ma forse anche adesso sono come prima della guerra, ingenua e inesperta.
Vorrei averti qui, a vivere nel mio appartamento con il piccolo Paolo. Pensaci, lo dico sul serio! Non sopporto l’idea che tu sia là, con tutte quelle persone ostili, con quella miseria. Se per adesso Peter non potrà venire, lo aspetterai, finché le cose si rimetteranno a posto.
Ora, finita la guerra, pian piano l’angoscia si sta allentando. In qualche modo ci risolleveremo, non credi? Sarà durissima, ma almeno non sentiremo più le bombe esplodere sopra i nostri palazzi: è già una gran cosa, vero?
Ti abbraccio e aspetto la tua prossima lettera,
tua Hanne
CAPITOLO 6
Mitzy non riusciva a togliersi di dosso quella cappa grigia e appiccicosa di profonda malinconia, quel groppo in gola, sempre pronto a sciogliersi in un pianto silenzioso, che sfogava di nascosto.
Paolo era la sua più grande consolazione, ma anche la sua ansia, la sua paura. Temeva che potesse ammalarsi di nuovo, che gli succedesse qualcosa in quella casa piena di pericoli: ai suoi occhi, la scala ripida, il freddo in camera, il fuoco in cucina, tutto poteva essere un’insidia per il piccolo, che ora gattonava ovunque.
Lei andava a lavorare e lo lasciava a Peter, ma se l’avessero chiamato per qualche lavoro saltuario, sarebbe stato obbligato a lasciare il piccolo alla madre, e Mitzy non era tranquilla.
Non poteva sapere che la suocera lo avrebbe accudito con pazienza e attenzione e che sottovoce l’avrebbe chiamato Guarino.
Non poteva nemmeno immaginare che l’avrebbe cullato e fatto addormentare tra le sue braccia, in cucina, al caldo, dopo avergli dato del latte.
Mitzy spesso si chiedeva come mai il bambino facesse le feste alla nonna, quando andavano giù per mangiare, e non ne avesse timore o soggezione.
Non aveva tempo per queste elucubrazioni e ultimamente era anche preoccupata per la sua gamba ferita. Era sempre lei ad attingere l’acqua potabile al pozzo e di solito la portava in casa con due secchi appesi a un’asta che appoggiava sulle spalle. Un giorno, tirando fuori dal pozzo uno di questi secchi, si era ferita una caviglia. Lì per lì non ci aveva fatto tanto caso, ma con il passare dei giorni la ferita, non solo non si chiudeva, ma cominciava a riempirsi di pus. La caviglia era gonfia e le doleva molto.
“Non l’avrai disinfettata abbastanza” la rimproverò Delfa, a cui aveva fatto vedere il danno.
“Povera frutate! Domani ti porto io una pomata!” e così dicendo, faceva gesti e smorfie per tentare di farsi capire, in quella lingua così ostica.
“Ci mancava ancora ‘sto guaio – mugugnava Mitzy, – ma io non sapevo come si portano ‘sti maledetti secchi. A casa bastava girare il rubinetto per bere acqua buona. Perché Peter mi ha portato in questo posto orrendo?”
Nel letto non sapeva come mettere la gamba, per paura di riceve un calcio durante il sonno.
Peter era mortificato, non avrebbe dovuto lasciar fare quel lavoro alla moglie, che non era donna di campagna. Ogni volta avrebbe dovuto intromettersi tra la madre e la moglie, avrebbe dovuto impedire a Giuditta di fare la despota, di imporre a Mitzy lavori pesanti e a volte assurdi, solo per il gusto di umiliarla: quelle poche volte che ci aveva provato, la madre gli aveva indicato la porta. Oh, come avrebbe voluto uscire da quella porta con la sua famiglia, senza fare ritorno, prendere un treno e ritornare a vivere la vita di prima!
La povertà è un male terribile, pensava Peter, blocca ogni via di uscita. Ora poteva solo stringerla a sé in un abbraccio muto.
Delfa arrivò il giorno dopo con una pomata e una bella benda bianca. Chissà dove aveva recuperato quelle cose?:
“Quanti bees?” chiese Mitzy, perché aveva imparato che bees erano i soldi, ma Delfa le fece un cenno infastidito con la mano e cominciò a fasciarle la gamba.
Mitzy ebbe voglia di piangere, questa volta non per disperazione. Tornando a casa, decise che avrebbe scritto ad Hanne.
Gonars, 5 marzo 1946
Mia cara Hanne,
mi sono ferita una caviglia e mi fa molto male. Ho bisogno di dirlo a te, perché con Peter non voglio lamentarmi troppo, vedo che è mortificato.
Mi sono fatta male prendendo l’acqua al pozzo, con un secchio di ferro.
È inutile, non sono capace a svolgere lavori pesanti, di campagna. Sono stata viziata da una vita comoda in città. Sono stata viziata non tanto dai miei genitori, quanto dal nonno: te lo ricordi, nonno Ferdinand? Lui mi adorava e cercava di soddisfare ogni mio capriccio, dandomi qualche soldo di nascosto dalla nonna, che era piuttosto avara. Adoravo nonno Ferdinand: alto, magro, con quegli occhi azzurri e affettuosi. Peccato che ci vedeva poco. Ricordo che d’inverno lo accompagnavo per le strade fiancheggiate da cumuli di neve… non sentivo freddo allora, avevo scarponcini foderati di pelo, non zoccoli di legno come adesso.
Peter cerca di consolarmi, dice che prima o poi andremo via di qui, ma più passano i giorni e meno riesco a credergli.
Secondo te come faremo ad andar via da questo inferno? Dove potremmo andare, senza soldi e senza lavoro, con un bimbo piccolo e gracile come Paolo? D’accordo, siamo giovani, solo ventotto anni, sia lui che io, ma la gioventù non basta, la buona volontà non è sufficiente, non credi?
Nella tua lettera mi dici di venire su da te, ritornare in patria con il bambino, ma come faccio ad abbandonare Peter? Lui non ha colpe, mi vuole bene, io e il piccolo siamo la sua vita, capisci?
È tutto così complicato, non so cosa pensare.
Mi ripeto continuamente la frase incisa su una tavoletta che avevamo in casa: “immer wenn du denkst es geht nicht mehr, komt von irgenwo ein Lichtlein her” *
Speriamo che arrivi presto questa luce, perché non ce la faccio più.
La tua Mitzy
* “sempre, quando pensi di non farcela più, giungerà da lontano una luce”
CAPITOLO 7
Hanne, come Mitzy, era depressa, svogliata e senza prospettive.
Aveva perso casa, amici e parenti, anche la carissima Edel di Vienna, conosciuta nella capitale prima della guerra, durante una gita con i suoi genitori.
Si era legata a lei quasi all’istante, conquistata dal suo brio, dalla sua allegria, dal suo sguardo intelligente e curioso.
Avevano più o meno la stessa età, circa vent’anni; Edel lavorava in un caffè di Vienna, dove era riuscita a farsi assumere per via della sua grazia e spigliatezza. Snella, con una corta zazzera che la faceva sembrare ancora più giovane, parlava sciolta, senza timidezza, attirando la simpatia dai clienti.
“Ce ne sono di noiosi, Hanne, non puoi immaginare quanto! Vogliono la panna acida, ma non troppo, la cioccolata zuccherata anche se è già dolcissima, protestano per il caffè tiepido, la Sacher non è mai abbastanza morbida, c’è troppa marmellata o troppo poca, lo strudel non è abbastanza friabile, il succo di mirtillo esageratamente denso o liquido, quel tavolino è troppo esposto alla corrente, quell’altro è troppo d’angolo e via di questo passo! I più noiosi, poi, sono quelli che ti lasciano una mancia misera.”
Edel raccontava tutto questo con occhi ridenti, senza astio o insofferenza, e senza dare troppa importanza alle sue avventure. Era deliziosa davvero.
I primi di aprile del 1945, i soldati dell’Armata Rossa entrarono a Vienna.
Nei giorni precedenti c’era stata una battaglia violentissima, durata un’intera settimana. Erano morti circa diciannovemila soldati tedeschi e austriaci e diciottomila sovietici. È impossibile descrivere la distruzione della città e l’annientamento della popolazione che seguirono. Le donne furono prese come bottino di guerra e stuprate dai russi.
Edel fu portata via da un capitano che la violentò, la picchiò e la seviziò fino alla morte. Fu una delle migliaia e migliaia di donne che ebbero questo destino durante la guerra.
Hanne venne a saperlo da un amico comune, rientrato da Vienna all’arrivo degli americani. Rimase impietrita alla notizia, immobile, gli occhi asciutti, la gola stretta da un dolore muto.
Anche Edel, anche lei, con il suo viso sorridente, la sua zazzera corta, lei che dava tanta gioia di vivere solo standole vicino, era nell’elenco di quelle care persone che avevano reso bello il mondo di prima.
Hanne viveva ora in due squallide stanze, in compagnia dei suoi fantasmi, e avrebbe tanto desiderato avere Mitzy accanto a sé. Con lei, alla fine della guerra, aveva vissuto giorni difficili. Dopo i bombardamenti di aprile, Linz era completamente distrutta. Non c’era luce né gas, né acqua, e men che meno cibo.
I sopravvissuti come Hanne e Mitzy si arrampicarono sulle macerie ancora fumanti e scavarono a mai nude, con la forza della disperazione, pur di ritrovare qualcuno dei loro cari ancora vivo. Le mani si screpolarono subito e cominciarono a sanguinare; tra i mattoni e le travi trovavano oggetti, che una volta avrebbero considerato preziosi e indispensabili, e ora sembravano senza importanza, quasi senza significato: piatti rotti, impolverati, tovaglie, un orologio a pendolo, un giocattolo, un libro. Tra questi oggetti sbucavano brandelli umani: un piede, un braccio, un tronco. Nulla, ormai, poteva spaventarle: tutto, nella loro mente, era ovattato dal dolore, da una disperazione mai immaginata prima, totalmente immeritata.
“Mutter!” “Vater!” “Karl!” “Joseph!” “Edda!” “Lotte!” sentivano gridare intorno da altri sopravvissuti, ma dopo il rumore insopportabile dei bombardamenti, regnava un silenzio implacabile: nessuno avrebbe più risposto.
Hanne aveva un fratello di un paio di anni più giovane. Era soldato e, dopo l’annessione, fu obbligato a entrare nell’esercito tedesco. Markus, così si chiamava, non ne era molto convinto, ma se non avesse accettato, avrebbe avuto seri problemi, com’era capitato ad altri.
I soldati tedeschi avevano una rigidità e una disciplina ferrea, erano intransigenti e, secondo Markus, anche ottusi. Non mettevano mai in discussione gli ordini ricevuti e avevano un’indole a dir poco sadica; consideravano gli austriaci come soldati di serie B, incapaci degli atti severi, per non dire crudeli, che un vero soldato dovrebbe compiere senza batter ciglio.
Anche Markus non tornò più. Morì nella tremenda battaglia di Vienna. Quindi Hanne non poteva sperare nel suo conforto.
In che modo avrebbe potuto sopravvivere?
Linz, 31 marzo 1946
Cara Mitzy,
spero che la tua gamba sia guarita e che tu ti senta meglio.
Io mi sto arrovellando su un fatto grave, anzi gravissimo, di cui solo ora comincio a prendere coscienza.
I nostri amici di famiglia, i Bauer, che hanno una cascina a dieci chilometri dalla città e dove vado a cercare un po’ di cibo appena posso, mi hanno raccontato una storia tremenda, che ancora stento a credere.
I Bauer sono sempre stati amici fedeli dei miei genitori e di tutti noi, te li ricordi, vero? Sono quelli che ti hanno dato la carrozzina per Paolo, il giorno che ci hanno bombardato la casa. Sono generosi, anche se un po’ chiusi e restii alla confidenza.
Comunque il signor Alfred l’ultima volta che l’ho visto, qualche settimana fa, si è lasciato andare e mi ha assicurato che a pochi chilometri dalla loro cascina vi era un grande campo di prigionia, dove i carcerati erano puniti con i lavori forzati.
Io sapevo e credo anche tu, che a Mauthausen, così si chiama il posto, c’era una prigione, ma non avevo mai saputo che fosse un campo di sterminio.
Ora ti spiego: a Mauthausen c'è una grande cava di granito e i nazisti hanno pensato di erigere un campo di prigionia proprio lì, in modo da far lavorare i prigionieri nella cava e avere le pietre sia per costruire la prigione stessa, sia per inviare il materiale a Vienna, il cosiddetto Wiener Graben, materiale che serviva a lastricare le strade della città. Questi prigionieri però non erano assassini o delinquenti, ma uomini contrari alla politica nazista, italiani, polacchi, ungheresi, rom e anche omosessuali e ebrei. Insomma persone che Hitler voleva annientare secondo le sue ideologie naziste, per purificare la razza e tutte quelle altre storie là. Tuttavia, contrariamente ad altri campi tipo Auschwitz, dove si erano organizzati con camere a gas e forni crematori, qui a Mauthausen la morte di tutti i prigionieri avveniva per sfinimento psicofisico, li facevano lavorare fino alla fine, non davano loro da mangiare, pensa che sono arrivati a morire di fame circa duemila persone alla settimana!
Non ci potevo credere, ma il signor Alfred mi assicurò che la notizia era vera, dato che gliel’aveva raccontata proprio un prigioniero.
Devi sapere che nella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio dell’anno scorso, quando c’è stata quell’enorme nevicata, ti ricordi, circa 500 prigionieri, con l’aiuto di paracadutisti russi che si trovavano prigionieri a Mauthausen, riuscirono a mettersi in fuga.
Purtroppo quasi tutti furono ripresi e uccisi, altri morirono di freddo e di fame, dato che già erano in condizioni fisiche precarie.
Se ne sono salvati solo una decina grazie all’aiuto di contadini del luogo e uno di questi prigionieri finì, dopo ore di cammino, in casa dei signori Bauer. Alfred e sua moglie Ute si spaventarono a vedere quell’uomo entrare nel loro cortile, ma si spaventarono per il suo fisico devastato e per i suoi occhi pieni di terrore.
Era un bavarese, fatto prigioniero perché contrario al regime di Hitler. Aveva ventitré anni, così disse, ma sembrava un vecchio. Di una magrezza spaventosa, lacero, sporco e infreddolito. Si chiamava Ronald.
I coniugi Bauer lo fecero entrare in fretta, sperando che nessuno li avesse visti, ma era ancora buio e con quella neve nessuno usciva di casa. Ute si sentì invadere da un grande sentimento materno, lei che aveva perso un figlio giovanissimo in Russia.
Gli riscaldò della minestra, che aveva tenuto da parte per il giorno dopo e Ronald la mangiò piano piano, tenendo in bocca per lungo tempo ogni cucchiaiata, per assaporarla e per paura che il suo stomaco non riuscisse a tenerla. Dopo Ute lo fece lavare e cambiare, dandogli abiti di suo figlio, e abbracciandolo come fosse il suo Markus.
Io sono rimasta perplessa, quasi incredula a sentire questo racconto, una prigione dove la gente moriva di fame? Ma com’era possibile?
Ho sempre saputo che i lavori forzati, lo dice il nome stesso, sono pesantissimi e possono portare anche a malattie e talvolta alla morte, che il regime delle prigioni in tempo di guerra è sempre più rigido, più duro, ma morire di fame così, ti pare possibile?
Eppure Ronald era quasi al limite, mi disse Alfred, c’è mancato proprio poco, meno male che ha incontrato i Bauer, delle brave persone davvero.
Tu che ne pensi?
Ti abbraccio
tua Hanne
Gonars, 20 aprile 1946
Cara Hanne,
meno male che c’è Delfa, la mia compagna di lavoro. Le sue cure attente mi hanno aiutato a migliorare la ferita, che ora mi pare sia in via di guarigione.
Quello che mi hai raccontato di Mauthausen mi ha atterrita.
In fabbrica ora parlano ogni tanto di qualcosa dei lager, ma io capisco poco, sento solo la parola lager e certi nomi di città tedesche o polacche, ma non so spiegare. Noi austriaci siamo stati stupidi a pensare che Hitler ci avrebbe portato del benessere, mentre ci ha portati nel baratro.
Io ho cominciato ad avere dei dubbi il giorno che ho visto Traude su quel camion. Ti ricordi la figlia della sarta che abitava nel palazzo difronte, la bella Traude di qualche anno più grande di noi, uno o due anni appena? Traude era a dir poco bellissima, tutti si voltavano per strada a guardarla. Inoltre era anche sempre molto elegante. Sua mamma le cuciva bei vestiti su misura, che ingentilivano e mettevano in risalto le sue splendide forme.
Ebbe sfortuna, povera Traude. Si innamorò di un francese, non so dove l’avesse conosciuto, ma lo amò profondamente e non fu abbastanza attenta. Qualcuno lo venne a sapere e lo disse a un ufficiale tedesco. La sorte delle donne che tradivano e andavano con il nemico era terribile.
Traude fu presa, rapata a zero, le marchiarono una “F” sulle guance, per far capire che aveva tradito con un francese e la caricarono su un camion scoperto, portandola in giro per la città, così tutti potevano vederla, deriderla, schernirla e lanciarle pietre. Una barbarie. Inutile dire che fu giustiziata.
Ma cosa aveva fatto di così terribile, dimmi, cosa?
Io ero innamorata di un italiano e lei di un francese, che differenza c’era? Per noi ragazze nessuna, per chi comandava la Francia era un nemico e chi andava con il nemico era un traditore. La cosa non mi piacque affatto e da lì tante altre.
Ora sono qui e anche qui non mi piace. Non finirà più questo malessere.
Tua Mitzy
CAPITOLO 8
In Friuli, ancora nel dopoguerra, quasi tutti i contadini allevavano bachi da seta. Tra fine aprile e inizio maggio le uova si schiudevano e apparivano i piccoli bachi affamati. Questo animale si nutre esclusivamente di foglie di gelso e la gelsicoltura era assai diffusa, anche perché richiedeva poco lavoro, tranne che nel periodo della potatura.
Peter era stato chiamato da alcuni contadini per la raccolta delle foglie di gelso e Mitzy, dopo il turno alla fabbrica di tabacco, andava a dar da mangiare alle bestiole.
I bachi venivano posti su graticci o intelaiature in legno e nutriti con i gelsi. Di quando in quando bisognava pulire e risistemare questi giacigli, onde evitare eventuali malattie ai bachi. Il baco da seta passa attraverso quattro mute, alla quinta “sale al bosco”, cioè si arrampica su cespugli, preparati dai contadini con rametti di erica o ramoscelli, e va a formare il bozzolo. Dalla schiusa delle uova alla formazione del bozzolo, periodo che dura circa cinque settimane, bisognava procurare una grande quantità di cibo. All’inizio le foglie venivano scelte e tritate, perché i bachi erano piccoli, poi man mano che crescevano, si davano foglie sempre meno tagliuzzate, fino ad arrivare alle foglie intere.
I bachi mangiavano delle quantità spropositate di gelsi. Peter andava a raccogliere i rami, che dovevano essere sempre freschi e asciutti. Mitzy tagliuzzava le foglie e puliva i “letti” dei bachi. Gli animaletti pelosi diventavano sempre più grandi, fino a raggiungere 8/9 centimetri.
I contadini tenevano in casa questi graticci, che si potevano sovrapporre gli uni agli altri, per risparmiare spazio, perché i bachi sono animali delicati e non possono prender freddo. Le stanze dovevano quindi essere calde e ben areate, molti si tenevano i bachi in cucina, dove c’era la stufa o il camino.
Quando i bozzoli erano completati, bisognava raccoglierli in fretta, perché non “sfarfallassero” e venivano portati alle filande.
I contadini non vedevano l’ora di consegnarli, perché così potevano avere “i prims bees da l’an chei che si tiravin dongje cu la galete”*
Con questi primi soldi guadagnati con i bachi, potevano saldare i conti di bottega ammucchiati nel periodo invernale. Tra una muta e l’altra i bachi dormivano e si ingrossavano.
Peter non faceva altro che andare dai campi alle case, portando carrette piene di rami di gelso e Mitzy, già stanchissima del lavoro in fabbrica, lo aiutava dando da mangiare a quegli animaletti pelosi, che non facevano altro che divorare, dormire e sporcare.
Comunque ogni lavoro era accettato dai due sposi, pur di portare a casa qualche lira.
Non sapevano, Peter e Mitzy, che il lavoro nelle filande era assai più pesante e rischioso. Era un lavoro prettamente femminile, che si svolgeva in ambianti chiusi umidi e caldissimi. Ambienti dove spesso si sviluppavano malattie contagiose, come la tubercolosi.
*Erano i primi soldi dell’anno, quelli che si guadagnavano con i bachi.
Gonars, 31 maggio1946
Cara Hanne,
è un po’ di tempo che non ti scrivo, ma in queste settimane sono stata molto impegnata con i bachi da seta. Sì, hai letto bene, bachi da seta.
Qui moltissimi contadini li allevano e poi portano i bozzoli alle filande, solo che prima di avere il bozzolo, bisogna nutrire questi vermiciattoli per tante settimane, accudirli e tenerli al caldo come cristiani.
A dire il vero tutto è iniziato quando hanno chiamato Peter per la raccolta delle foglie di gelso. Lui doveva andare con un grosso carretto su e giù dai campi alle cascine portando quantità enormi di foglie di gelso, perché i bachi da seta si nutrono solo di questo fogliame.
Dopo un po’ di giorni che faceva sto lavoro da contadini non lontano da casa, mi ha chiesto se volevo dare una mano alle donne che accudivano i bachi. Io non dico mai di no, perché così magari mi danno qualche lira o qualcosa da mangiare e da portare a casa.
Quando sono entrata nel grande stanzone della signora Rosa, mi sono sentita mancare. C’era una gran numero di graticci con sopra una quantità infinita di vermi, che si muovevano in cerca di cibo. Erano impressionanti e schifosi alla vista, ma vedevo che le donne e anche i bambini della casa li prendevano in mano con delicatezza, li spostavano, li appoggiavano sulle foglie e non davano alcun segno di ribrezzo.
Mi feci forza e mi avvicinai. La signora Rosa mi spiegò, più a gesti che a parole, che dovevo prendere le foglie di gelso, controllare che fossero sane e asciutte e tagliarle fine fine, perché i bachi erano piccolini e non riuscivano a mangiare le foglie intere.
Cominciai con le foglie e quando ne ebbi sminuzzate tante da riempire un secchio, andai ai graticci e le sparpagliai sopra, poi cominciai a prendere in mano quei vermi, perché per me erano come vermi, ma mi accorsi con stupore che erano morbidi e pelosetti. Al tatto mi facevano meno schifo che alla vista e piano piano imparai a maneggiarli e a nutrirli. Andavo dalla signora Rosa dopo la fine del turno ai tabacchi e la giornata mi pareva senza fine. Peter andava e veniva con la sua carretta piena di gelsi e alla fine tornavamo a casa stremati.
Comunque la signora Rosa mi trattava bene e ogni tanto mi regalava una manciata di ciliege.
I bachi crescevano velocemente e alla fine formarono i bozzoli, che il padrone di casa raccolse in una grande gerla e portò alla filanda. Fu pagato subito, per fortuna, così diede a me e a Peter un po’ di soldi.
Sai cosa abbiamo comprato con quei soldi? Oh, sono così felice nel dirtelo! Abbiamo preso un paio di scarpe per Paolo. Vedessi com’è carino e come cerca di camminare da solo. Ora non ci riesce ancora, dobbiamo sempre dargli la mano, ma credo che presto correrà da solo.
La contadina dei bachi, che si chiama Rosa, mi ha fatto venire in mente la mia amica Rosel, sai, la figlia della maestra elementare, quella ragazzina timida e pallida, che io ho tanto amato per la sua semplicità e generosità, te la ricordi? Un pomeriggio eravamo per strada e andavamo insieme a fare un po’ di spesa per le nostre mamme, quando sentimmo le sirene squarciare l’aria e avvisare che a breve avrebbero bombardato.
Tutti si paralizzarono per un attimo e l’attimo dopo tutti iniziarono a muoversi, a correre in modo frenetico. La gente, le biciclette, i carretti, le poche auto, tutti, persino i cani, correvano come spinti in avanti da una forza invisibile. Gli sguardi terrorizzati, la gola asciutta e le orecchie che cominciavano a sentire il rombo degli aerei. “Dài Rosel” le gridai “corri, corri più veloce, che andiamo al rifugio dietro la Hauptplatz, dài!”
“Ma sei matta!” mi rispose col fiato grosso “È troppo lontano, non ce la faccio, fermiamoci al rifugio di Leopold Strasse, ancora pochi metri e ci siamo!”
La strattonai e la guardai preoccupata. “Ma che dici, Rosel, non senti, ci sono i caccia sopra la nostra testa, quelli ne sganciano tante di bombe, lo sai no?”
“Lasciami stare, Mitzy, io mi fermo al prossimo incrocio, mi fa male la milza, non riesco a correre fino là, lasciami, ti prego.” Così dicendo si staccò dalla mia mano e girò l’angolo.
“L’altro è un rifugio antiaereo, quello di Leopold Strasse no, lo capisci?”
Ma lei aveva già svoltato e intravidi solo più la sua treccia bruna.
Io corsi a perdifiato, con il rombo dei bombardieri sempre più vicino, non mi sentivo più le gambe, non avevo più fiato, solo il terrore mi diede la forza di non mollare e miracolosamente giunsi al rifugio appena in tempo.
Non so quante bombe sganciarono, quanto tempo durò quell’inferno. Sotto era buio, puzza di umanità terrorizzata, pianti di bambini e litanie di preghiere.
Poi di nuovo le sirene del cessato allarme e piano piano uscimmo tutti dal buco.
Corsi subito verso il rifugio di Leopold Strasse, non vedevo l’ora di arrivarci, ma nello stesso tempo avevo paura, Quando vi giunsi, il palazzo, sotto al quale si era rifugiata Rosel con molti altri, era stato bombardato, era crollato su se stesso, formando una montagna di macerie, sotto le quali c’era la grande cantina usata come rifugio. Si vedevano mani aggrappate alle griglie delle finestrelle a livello del marciapiede, e risuonavano urla di disperazione. Le tubature dell’acqua erano scoppiate e tutto si stava allagando lì sotto. Nessuno poteva fare nulla, le ruspe sarebbero arrivate troppo tardi, uomini e donne imprigionati sarebbero morti annegati; tra essi anche la piccola Rosel, la dolce e timida amica mia.
Ti abbraccio, scrivimi.
tua Mitzy
Linz, 18 giugno 1946
Cara Mitzy,
che bella la tua avventura con i bachi da seta! Mi ha messo allegria! Ti vedo, con quell’aria timida e con un brivido di ribrezzo, prendere in mano quei vermi. Anch’io ne avrei avuto schifo. Comunque la signora Rosa, che ti regalava le ciliegie, non doveva essere cattiva.
Tuttavia dopo i racconti del signor Alfred non so più giudicare se una persona sia buona o cattiva, ho sempre il dubbio che possa far finta, che voglia ingannarmi con un sorriso, che sia maligna ma intelligente, e che io non potrò capirlo.
Sono tornata dai Bauer, con la scusa che ora hanno più frutta, ma in realtà per vedere se riuscivo a sapere qualcosa di più su Mauthausen.
Alfred mi ha detto che il ragazzo, nel periodo che stava nascosto da loro, passava le giornate chiuso in se stesso, lo sguardo sfuggente, e aveva una gran paura del loro Blitz, un cane lupo dolcissimo che non sa fare altro che le feste. Soprattutto quando abbaiava, Ronald si ritraeva e gli si riempivano gli occhi di terrore.
Una sera Alfred gli chiese: “Perché non mi dici come mai hai tanta paura del mio Blitz? Dovresti averlo capito, è un cagnone buono e affettuoso, nemmeno il gatto ha paura di lui!” Alfred abbassò gli occhi e quasi bisbigliando raccontò che là, in quell’inferno di Mauthausen, le SS avevano cani lupo ferocissimi, che abbaiavano e digrignavano i denti e a un determinato comando si scagliavano contro i prigionieri, buttandoli a terra, per poi sbranarli e ucciderli. Ora Ronald ha una paura istintiva, incontrollata, non appena sente abbaiare un cane lupo.
Ma sarà vero? Sarà mai possibile un’atrocità simile?
Io stento a crederlo, ma Alfred assicura che il ragazzo era sincero, la sua paura era palpabile e soprattutto non avrebbe avuto nessun motivo per raccontare certe storie, se non fossero state vere.
Come al solito, mi hanno offerto il tè con una fetta di pane e marmellata fatta dalla signora Ute, buonissima, e la signora mi ha raccontato un’altra storia.
Lei ha una cugina, di nome Gisela, che ha un podere e una cascina su una collinetta di fianco alla prigione di Mauthausen. Qualche giorno prima della mia visita, le due si erano incontrate, dopo tanto tempo, finalmente in pace e davanti a un caffè. Gisela le ha raccontato che, dalla finestra della sua camera da letto, vedeva una lunga e ripida scala, che dalla cava di pietra di Mauthausen porta in superficie. La scala da un lato fiancheggia la collina, ma dall’altro non ha protezioni e c’è lo strapiombo. Gisela vedeva tutti i giorni decine e decine di uomini salire su questa scala, portando sulle spalle enormi massi di granito. Gli operai dovevano unirsi in gruppi da cinque e salire insieme gli scalini; bastava un niente, che uno scivolasse e facesse cadere a domino gli uomini dietro di lui. Alla fine della giornata la scala era rossa di sangue e a terra e nel burrone c’erano decine di corpi. Gisela sentiva urlare le guardie, che spesso picchiavano i prigionieri con il calcio del fucile e li spingevano nel vuoto.
Quella vista era insostenibile, disse la cugina a Ute, per cui decise di scrivere una lettera al comando di polizia, raccontando i maltrattamenti ai prigionieri. Purtroppo nessuno le rispose mai e lei ne rimase perplessa, stupita per questo silenzio.
Ora comincio a credere che queste storie siano vere: Ronald e Gisela non si conoscono, eppure entrambi raccontano cose terribili dello stesso posto.
Ora ti saluto, scrivimi presto
tua Hanne
Gonars,16 luglio 1946
Cara Hanne,
sono sconvolta, incredula e impietrita per le notizie che mi dai, per i racconti assurdi e atroci che mi scrivi.
Non so cosa dire, non capisco come abbiano potuto tenere queste cose nascoste, come abbiamo potuto non sapere.
Ma dove eravamo con la testa? Anch’io, come te, come tanti, non ero a conoscenza di tali orrori.
Quando con il treno passavo da Dachau, vedevo quei prigionieri nel campo e li trovavo tremendamente magri e macilenti, ma non capivo, la mia mente non poteva arrivare a realtà così disumane.
Ieri Delfa mi ha fatto vedere una foto del figlio di contadini amici suoi, un ragazzo di ventun anni, figlio unico, morto al fronte. Si è beccato una pallottola ad una gamba, che si è infettata tutta e hanno dovuto amputargliela. Purtroppo non è bastato, si è infettata anche l’altra gamba. Senza pietà gli hanno tagliato pure quella, ma niente è servito. Tutto il sangue ormai era infetto e il ragazzo è morto soffrendo tantissimo.
La foto ritraeva un ragazzo bello e sano, giovanissimo e spensierato, ora ci chiediamo perché sia morto, perché ha dovuto regalare la vita al Duce. Il padre si è chiuso in un mutismo totale e non vuole vedere nessuno, pover’uomo!
È estate, fa caldo, sento le cicale e vedo le lucciole la sera. Paolo corre per acchiapparle e, quando ne prende una e la vede illuminarsi tra le mani, è felice e ride. Non riesco però a venir fuori da questo stato di buia angoscia, di tristezza perenne, di totale incertezza. Che futuro potrò dare a Paolo? Continueremo a stare qui in casa della suocera? Io guadagno poco e Peter non trova un lavoro degno di questo nome. Il fatto che sia sposato a una tedesca, come dicono qui in paese, non lo rende simpatico.
Meglio sarebbe stato se fossi morta con i miei genitori.
Scusa lo sfogo. Tu come stai? Ti vorrei tanto abbracciare e avere qui al mio fianco. Tu solleveresti sicuramente il morale a tutti noi, il tuo profondo affetto ci sarebbe d’aiuto. Sei l’unica persona che mi è rimasta lì in Austria.
Un bacio
Mitzy
Linz, 5 agosto 1946
Cara Mitzy,
dalla tua ultima lettera capisco che sei depressa, triste e poco combattiva. Non va bene così, Mitzy, non va bene. Devi trovare la forza in te stessa e farlo per amore di Paolo e di Peter. Fai uno sforzo, ti prego: passerà, sono sicura, passerà. Come ricostruiamo le case e le strade, ricostruiremo le nostre anime, la nostra speranza, ne cono sicura. Non te lo dico solo per cercare di consolarti, te lo dico perché ne sono convinta.
Non ti parlerò più di Mauthausen, non ti racconterò più dei morti, basta, ora dobbiamo pensare ad altro, dobbiamo rinascere.
Tuttavia, quello che mi domando ora è come sia stato possibile tutto questo, come abbiano fatto a nasconderci certe atrocità.
Se penso che eravamo a 25 chilometri da un tale luogo di orrori e non ne sapevamo niente, mi chiedo in quale modo sia responsabile di una così grande ignoranza. Sono stata superficiale? Siamo stati tutti troppo superficiali, in buona o in cattiva fede?
Io sono stata travolta dalle mie difficoltà, dalle mie paure, dalle mie tragedie e sinceramente non ho capito, non mi hanno fatto capire la mostruosità che mi circondava. Non so cosa dire, ne sono annientata.
Il commento di un sopravvissuto anonimo di Mauthausen recita: “chi è sopravvissuto a questa esperienza, non muore più.”
Ti abbraccio e spero di leggere una tua lettera con qualche sorriso.
Hanne
CAPITOLO 9
Era una bella domenica di settembre, con il cielo azzurro e l’aria tiepida.
Mitzy indossò la gonna a fiori, quella che le piaceva tanto e si legò i lunghi capelli in uno chignon.
Era bella, nonostante la magrezza e gli occhi sempre un po’ cerchiati.
Chiamò Paolo, che le corse incontro gioioso come sempre, e gli propose una passeggiata.
“Ti porto a vedere i treni alla stazione, sei contento?”
Il bimbo sorrise e le saltò al collo.
Si avviò tranquilla, la piccola mano del figlio nella sua. Lui saltellava e prendeva a calci qualche ciottolo.
Lei aveva lo sguardo lontano.
Arrivarono alla stazione. La superarono e continuarono a camminare lungo un binario.
Mitzy prese in braccio il piccolo, avanzò ancora un po’ e alla fine si sedette con lui tra le rotaie.
Era tranquilla e il bimbo la stringeva e la baciava, giocherellando con una ciocca dei suoi capelli.
Mitzy rimase lì, ferma, senza più parlare, senza più piangere, in attesa del direttissimo che tra pochi istanti sarebbe sfrecciato sul binario.
NOTA
Il capostazione notò Mitzy camminare lungo il binario e si allarmò. La seguì senza che lei se ne avvedesse e quando, con grande spavento, la vide seduta sulle traversine con il bimbo in braccio, urlò in preda al panico, la raggiunse con un balzo e la trascinò via di lì, un attimo prima che arrivasse il treno.
Mitzy era mia madre.