LA VITA E ‘ BELLA

Lea si risvegliò di soprassalto: aveva fatto ancora quel sogno, e da quell’atmosfera non avrebbe voluto emergere ancora. Perché si era svegliata? Fuori era notte, anche se un lieve chiarore si poteva indovinare all’orizzonte. Si ricordò subito che quello era il giorno della partenza e si sentì invadere da una felicità tale da far vibrare ogni fibra del suo corpo. Mancava ancora tempo al risveglio prestabilito ma sapeva che non avrebbe più potuto dormire.
La valigia era pronta, i documenti pure, il tragitto all’aeroporto accompagnata dai genitori era programmato.
Soltanto sei mesi prima, poter partire per un dottorato di ricerca in una prestigiosa Università americana sarebbe stata un’occasione riservata ai suoi compagni di studi, i quali avrebbero postato foto e video che lei avrebbe guardato con invidia dal suo mondo abituale: la sua camera e il reparto di cardiologia dell’Ospedale.
Ma ora era lei a partire, non era un sogno e per sincerarsene si pizzicò con forza la mano fino a provare dolore, un bellissimo dolore…
Ripensò al sogno da cui era emersa: si ritrovava in un giardino con pini secolari, sovrastato da un edificio imponente, un luogo dove non era mai stata. Nel sogno, era una bellissima giornata di sole, faceva caldo nonostante fosse inverno, nel giardino erano collocate molte sedie, come per accogliere un pubblico destinato ad assistere ad uno spettacolo, un concerto. C’era già molta gente e ancora continuava ad arrivarne. Nella parte centrale del giardino, sotto gli alberi, accanto ad alcune sedie e a leggii da spartito, alcuni giovani liberavano gli strumenti dalle loro custodie: violini, flauti, violoncelli, e li accordavano.
Un uomo, con un lungo abito nero dal colletto bianco, rileggeva degli appunti e provava un microfono. C’era un clima di attesa, mentre le persone si avvicinavano le une alle altre, cercando di manifestarsi a vicenda affetto, partecipazione. Dalla strada improvvisamente varcava il cancello una lunga auto funebre e una bara era collocata su cavalletti.
Dagli strumenti scaturiva una musica in cui i violini avevano la meglio; infine, da un registratore, era proposto un brano con violino solista, di una bellezza struggente.
Pur non essendo un’intenditrice, Lea era rapita da quella musica e percepiva una carica emotiva che la lasciava spossata, eppure desiderosa di continuare a sentirla.

Il salone dell’aeroporto era gremito di folla, la ragazza spingeva la valigia con le rotelle e controllava i pannelli che annunciavano le partenze. Su un lato del salone troneggiava un pianoforte a coda e un ragazzo aveva colto l’invito del cartello: “Play me, I’M Yours”.
Lea aveva rallentato fino a fermarsi: la musica era la stessa del sogno, tenera e toccante. Guardò con aria interrogativa sua madre, che le sorrise di rimando: “La vita è bella. È questa la musica!”.
Mentre l’aereo rollava sulla pista e si innalzava nel cielo azzurro, la ragazza avvertì la pienezza del dono ricevuto quel Natale.

La malattia aveva colpito Lea improvvisamente alcuni anni prima: una grave cardiopatia non dava adito a speranze, soltanto un trapianto avrebbe potuto salvarla.
Era cominciato così un calvario non meno doloroso della malattia stessa: infiniti esami di compatibilità, per gruppo sanguigno, per dimensioni del muscolo che doveva essere trapiantato.  L’attesa della chiamata dal centro trapianti era stata estenuante, come l’ansia di essere reperibili, mentre le condizioni di vita peggioravano e non si vedeva una via d’uscita.
Poi, il mattino di Natale, il telefono era suonato: una giovane donna era morta per emorragia cerebrale e i parenti avevano dato il benestare all’espianto degli organi. La corsa in ospedale, la buona novella che l’organo era compatibile, la preparazione… da allora la strada era stata tutta in discesa.

 

L’ospedale era silenzioso, non era orario di visita e gli infermieri passavano nei corridoi con i loro carrelli carichi di medicine. Alcuni alberi addobbati con decorazioni scintillanti e un sottofondo di musica natalizia ricordavano ai pazienti che era Natale.

“Perché sono ancora qui? Me ne devo andare, lo so, ma non riesco a lasciare questa stanza.
Avevo ancora tante cose da fare, tanti giorni da vivere, pieni e febbrili come è sempre stata la mia vita. Questo Natale era particolarmente ricco di eventi, di concerti, di occasioni per far conoscere la mia nuova scuola di musica, con l’ansia nel presentare i piccoli violinisti che stavo formando. Ricordo che arrivavo alla sera stanca morta, quasi non riuscivo a cenare: gli impegni musicali e per la chiesa, in cui ero una presenza costante, avevano fatto passare in secondo piano la mia famiglia e mi sentivo in colpa per non essere una madre attenta e disponibile per Aurora e Sergio, ancora così giovani. Ma dopo le feste un periodo di riposo mi avrebbe permesso di pensare a loro e a me, a quel mal di testa che mi tormentava.
Il mattino di Natale avevo posato sotto l’albero i regali per i ragazzi, quando improvvisamente tutto era diventato buio.

“Vuole donare gli organi?” Guardo senza capire l’impiegata dell’anagrafe che mi sta rifacendo la carta d’identità. “Se decide in tale senso, sul documento comparirà la sua scelta.” “Certo” rispondo. L’ho sempre pensato, ma la morte mi pare lontana, roba da vecchi. Io sono giovane e ho ancora tante cose da fare.

Vedo arrivare un’equipe di medici, si salutano, si scambiano velocemente informazioni, indossano camici e mascherine. Sono intorno al letto e tolgono il lenzuolo, restano un attimo ad osservarmi, poi iniziano a tracciare segni, a disegnare mappe sul mio corpo.  Tra di loro c’è un ragazzo giovane: si chiama Federico, forse è alla sua prima esperienza come medico espiantatore, perché lo vedo esitare e impallidire, mentre un medico più anziano lo richiama e gli parla con fermezza mista a tenerezza.
Il mio cuore appare tra le mani del chirurgo che lo osserva e lo ripone in un contenitore, così come i reni, i polmoni, le cornee. Quando tocca alla cute, Federico prende fra le sue le mie mani e passa le dita sui polpastrelli, sente la durezza della pelle dove le corde del violino hanno lasciato i calli.
Il medico annuisce e gli fa notare il callo che ho sulla spalla: stanno scoprendo i miei segreti, i segni fisici che la musica ha lasciato sul mio corpo. Quelli dell’anima per fortuna sono al sicuro.

Un elisoccorso è pronto sulla pista vicino all’ospedale, i contenitori sono destinati a Roma, Genova, Pordenone, Centro grandi ustionati.
Mi hanno ricomposta e se ne vanno a capo chino, quasi a scusarsi per avermi depredato. Solo Federico indugia, torna indietro e mi sfiora un ricciolo che è uscito dalla cuffia dove sono chiusi i miei capelli.
Guardo il mio corpo, il mio guscio vuoto. So che ora posso lasciarlo: vivrò altre vite e mi auguro che siano belle e piene d’amore come quella che ho vissuto.

 

Autore: Marinella Undilli
Data: 06 mar 2022