L'EREDITA'

Torino, 15 aprile 1925
Cara mamma,
eravamo d’accordo che non ti scrivevo appena arrivata a Torino perché era meglio se mi sistemavo, così potevo raccontarti qualcosa. Bene, ho aspettato due settimane, ma già ti posso dare notizie sicure.
Qui sono stata accolta dai Blanchard che quasi non conoscevo (gli aveva parlato zio Valentin) eppure si sono dimostrati subito generosi e gentili. Anita si è data da fare per cercarmi qualche posta tra le signore che conosce, ma nel giro di tre giorni monsù Blanchard è arrivato con una notizia da mettere sul giornale: nel palazzo dove abita il padrone della sua ditta devono trovare una nuova portinaia, perché quella di prima è malata.
Monsù Blanchard ha parlato di me come di una giovane di fiducia e di buona volontà, che ha studiato un pochino, che potrebbe cavarsela di sicuro come portinaia.
Un gruppo di condomini si è riunito per vedere se potevo andare bene.
Mi hanno guardata come una bestia rara, mi hanno fatto tante domande sulla mia famiglia e sul fidanzato e sul ballo e se sapevo leggere e se parlavo l’italiano.
Io ho risposto tranquilla, non ho niente da nascondere: la mia famiglia è grande, ma ci vogliamo tutti bene, non ho nessun fidanzato, so leggere e scrivere perché al mio paese ci sono state delle maestre in gamba. Insomma non mi hanno spedita via di brutto, hanno detto che ne parlano tra di loro e poi mi dicono qualcosa tra due giorni.
Ieri è arrivata la risposta: Sì, mi prendono in prova per un mese e poi si vedrà! Ho voglia di ballare e cantare, essere a casa con le sorelline a fare un po’ di sarabanda!
Ma qui devo essere seria. “Emilia, portati bene, sei grande” dice papà e ha ragione, ma sono troppo contenta.
Il padrone di Lucien B. gli ha detto che ho fatto una buona impressione, anche se sono un po’ giovane per questo lavoro, ma è piaciuto a tutti il mio modo di parlare e il mio vestito semplice ma elegante (grazie Giulia per il tuo lavoro di sarta!)
Queste notizie bellissime mi consolano un po’ perché mi mancate tutti tanto. Mamma che brontola, papà che parla poco, Bastiano che ha sempre paura che io mi metto nei guai, neanche avesse vent’anni più di me, le sorelle alte un po’ smorfiose e le sorelle piccole ficcanaso.
Appena so di più del mio lavoro vi scrivo di nuovo. Saluta tutti in patois, che io qui non posso più parlarlo.
Baci e abbracci dalla vostra affezionata Emilia
Avete visto che non ho detto “io sto bene come spero di voi”… la maestra Romilda diceva che ci cascavano le dita a scrivere le ‘boricade’.


Torino, 30 aprile 1925
Carissima mamma e tutti,
vi dico subito che sono molto contenta: il lavoro è continuo, però non pesante. L’alloggio è piccolo ma carino, ho tenuto i mobili che c’erano, ho solo messo le tendine nuove e tre centrini che mi sono portata da casa per vedermi intorno qualcosa di mio. Pensa che c’è un piccolo bagno con l’acqua calda e fredda, secondo come giro il rubinetto!
Non trovo giusto avere queste comodità e voi dovete andare al pozzo e alla fontana per prendere l’acqua e scaldarla sulla stufa per lavarsi il sabato nel bassin. Certo che buona come l’acqua d’la Rucia non ce n’è un’altra, però qui è più facile lavarsi e fare la lessia. Non sono tanti i palazzi di Torino belli come questo. Mi hanno detto che tanti hanno il gabinetto sul balcone e anche gli ascensori sono pochi. Sono contenta di stare in una casa così bella.
Lavoro tutto il giorno per pulire l’entrata, le scale, l’ascensore, il giardinetto e il cortile, ma poi passano anche signore gentili che si fermano a dire due parole. Non ho mai tempo di stufarmi. Alla sera leggo “La Stampa” del giorno prima, che tanto per me è nuova e molti signori me la danno al mattino da buttare, tanto gli arriva già quella fresca. Così mi tengo informata. Poi vi racconto.
Se mi tengono (io penso di sì) vengo su una domenica a vedervi mentre mi prendo un po’ di patate che qui non so da dove vengono, non sono buone da fare gli gnocchi, as desbelo subit.
Non vi prendete pena per me, sto bene e vi penso sempre. Essere una mosca e venire ogni tanto a vedervi!
Baci e abbracci a tutti. La vostra Emilia.

 

Luglio 1925
Mi sono comprata un quaderno di quelli belli, con la copertina nera lucida e il bordo dei fogli rosso fuoco. Ce l’aveva così la maestra Romilda che ci scriveva ogni tanto mentre noi mangiavamo la mela o le castagne e poi giocavamo intorno alla chiesa.
La maestra diceva che se volevamo avere delle belle idee per i temi bisognava sempre scriversi le cose e poi leggerle che così si vedeva subito se si capiva o no.
A me piaceva scrivere e anche leggere. Ho letto tante volte Cuore e Pinocchio che li avevo quasi a mente: come piangevo e come ridevo per quelle storie!
Ma il quaderno adesso l’ho preso per segnarmi i servizi che ho fatto per qualche signora del palazzo e gli impegni che ho per il giorno dopo, che non voglio dimenticare qualche cosa.
E poi voglio scrivere anche qualche idea sulla mia nuova vita in città.
Nuova vita: è proprio così. Fino a quattro mesi fa abitavo in un paesino di montagna più su di Perosa Argentina con tutta la mia numerosa famiglia. Nella nostra casa stavamo in dieci: nonna Maria, magna Candida, mamma, papà e noi sei figli.(Veramente ci sono anche due figli più vecchi che sono già sposati e hanno la loro famiglia).
Tutti facevamo tanti lavori come portare la mucca al pascolo, raccogliere l’erba per i conigli, preparare il pastone per le galline, andare alla fontana a prendere l’acqua fresca e mille altri mestieri. Ma tutto questo dà un ricavo magro e io che sono la più vecchia della nidiata ho deciso di venire a Torino a cercare lavoro. C’era una famiglia che mio zio conosceva che stavano a Torino da anni, così si sono scritti e hanno deciso che io potevo appoggiarmi a loro per vedere come me la sbrigavo con i lavori qui in città.
Mi è andata proprio bene perché in pochi giorni mi hanno fatta entrare come portinaia in un bel palazzo moderno vicino (non tanto) alla fabbrica del Lingotto.
Il lavoro mi piace molto, le signore sono quasi tutte ‘motobin grassiose’, mi trattano bene quando mi incontrano per le scale, sorridono e si fermano a dire due parole. I signori anche sono gentili ma mi guardano troppo e io faccio in fretta a sparire.
Ai miei scrivo che mi piace tutto del posto, perché non voglio che abbiano pena per me, ma non è tanto vero.
Qui ci sono dei odori e dei rumori che non ero abituata e mi fanno star male.
L’odore dei camion e dei treni arriva fin qui e mi fa male a respirare. In tutti i cortili ci sono delle piccole boite dove battono il ferro, saldano, provano dei motori e poi ci sono i muratori che tirano su case da tutte le parti e gridano e bestemmiano e dicono stupidaggini alle ragazze e di notte si sentono carri che portano la verdura ai Mercati Generali o al ‘Balon’ e altri che trasportano il latte. Insomma c’è bordello giorno e notte e io ero abituata che il rumore più forte era quello dei galli che alle quattro cominciano a dare la sveglia ma a noi giovani non importava niente, che dormivamo come sassi fino a quando il papà cominciava a gridare: “Plandron, forsa, forsa bogieve, a la matin i travaj a vantagio!”
L’abitudine di alzarmi presto mi è rimasta e sono contenta perché io faccio i miei lavori prima che i signori cominciano a uscire per andare negli uffici e nelle scuole, così poi posso andare nelle scale a passare lo straccio, a pulire i vetri e le ringhiere. Più tardi escono le signore che mi danno qualche commissione e io corro fuori a comprare o a portare le lettere alla Posta.
Nel pomeriggio ho del tempo per me, leggo La Stampa del giorno prima e penso a certe cose che non capisco: il giornale è pieno di Mussolini ha fatto questo e ha fatto quello e la battaglia del grano e i raduni di qua e di là. Sono curiosa di vedere se farà tutto bene come dice.
Non ho bisogno di comprare il giornale perché tutte le mattine le signore mettono fuori dalla porta i giornali vecchi e io li devo portare via. Li impilo in una cantina e poi viene un uomo che li porta alla cartiera una volta al mese, perciò io ho tutto il tempo di leggere le notizie.
Leggo anche le storie d’amore su Novella e i libri di Liala perché una signora me li impresta. Con tutte queste storie d’amore però non mi viene in mente di lamentarmi se non ho un uomo innamorato di me. Su al paese c’era Sergio che era un bravo ragazzo e mi ha detto tante volte che voleva parlarmi sul serio, ma io non ero sicura e sono venuta via senza lasciargli nessuna speranza.
Qui non conosco nessuno, non vado da nessuna parte e allora resterò come magna Candida che è rimasta da sposare e ha sempre aiutato nonna Maria con tutti i suoi figli e poi ha aiutato a allevare tutti noi. Magna Candida non ha avuto bambini suoi ma ne ha allevati molti più di una madre. Forse farò anch’io così, resterò un ‘toton’. Qui si dice zitella. Io sono contenta così.

 

Torino, 30 settembre 1925
Cara mamma e papà e tutti,
ci siamo visti due giorni in agosto, perciò non avevo premura di scrivervi perché vi ho raccontato a voce la mia vita qui e voi mi avete detto come vanno le cose al paese, non c’erano cose nuove da dirsi.
Ho pensato a Vittoria che vuole sposarsi e mi sembra bello. Per un altro anno riusciamo a farle un po’ di corredo e possiamo combinare una bella festa nel cortile di casa. Tanto è sempre tutto fiorito di margherite, bocche di leone, lillà e lavanda. E con delle cuoche come mamma, nonna e magna Candida sarà uno spatuss!
Per le spese non dovete farvi carico: io qui non spendo quasi niente e poi ho anche delle mance. I soldi li metto io ben volentieri.
Dite a Giulia che cominci a fare le veste per le ragazze, prendete la stoffa dal Tomalin che passa in giro a vendere e sarà ben contento di avere un ordine grosso così.
Fatemi sapere se posso fare qualcosa da qui.
È uscito un nuovo giornale chiamato Mani di Fata. Questo me lo imprestano solo, non lo buttano perché dentro ci sono dei modelli e tante idee che vanno bene per il corredo e per i vestiti. Cerco di imparare qualcosa poi lo spiego a Giulia che lei è la più svelta e capace di tutte noi con la stoffa.
La vostra Emilia che non vi dimentica.

 

Ottobre 1925
Sono proprio contenta che Vittoria vuole sposarsi. Louis è un bravo giovane, tanto povero ma di buona volontà. Ho provato a parlargli dei lavori che ci sono qui in città; non mi sembra tanto convinto di andare in fabbrica, però è un mestiere sicuro e uno che vuole mettere su famiglia deve pensarci.
A Vittoria piace di venire via dal paese e abitare in un alloggetto con l’acqua in casa. Non dico il bagno perché quello è un lusso esagerato! Qui a Torino le case sono quasi tutte di quattro o cinque piani con quattro alloggi per piano e il cesso in fondo al balcone. Bisogna contentarsi.
Da tutte le parti tirano su case nuove e tanta gente viene a stare in città perché ci sono le fabbriche, ma non tutto è tranquillo.
Io non so perché ci sono tante proteste.
La signora F. mi ha detto che i fascisti vogliono essere i soli a governare e forse ha ragione. Infatti il mese passato hanno chiuso La Stampa e non possiamo più leggere le notizie di Torino. Dicono che forse non la scriveranno più perché diceva delle cose che non si possono dire.
Speriamo piuttosto che non viene un’altra guerra che abbiamo tutti avuto dei morti nella Grande Guerra e dei giovani che sono tornati senza una gamba o senza un braccio o con i piedi congelati che poi gli hanno tagliato mezzi i piedi e gli hanno dato delle scarpe speciali per potersi muovere.
Io conosco Lencio che gli è capitato quello e ha avuto poi la fortuna che l’hanno messo in una centrale elettrica vicino ad Aosta a fare il guardiano, che in campagna non poteva più lavorare.
Sua moglie Teresa è contenta della vita che fanno in Val d’Aosta, che ci sono montagne così alte che a volte la punta è nelle nuvole e sopra c’è la neve anche d’estate.

Andavo sempre dalla mamma di Teresa a leggerle le lettere, che Tonieta non sa né leggere né scrivere. Si faceva leggere tante volte la lettera poi la prendeva in mano con gentilezza e ripeteva le parole una per una, sorridendo e piangendo e diceva:
“Grassie Emilia. Mi hai dato mia figlia qui per un mese o due”.
Era il tempo che ci voleva prima che Teresa scriveva di nuovo.
Io mi sentivo sempre le lacrime agli occhi quando leggevo e quando dovevo rispondere a Teresa.
Adesso questo lavoro lo fa Rosina, la mia sorella piccola. Le ho detto di avere pazienza e leggere piano, che Tonieta può imparare la lettera a mente, che è l’unica consolazione che ha.


Val Chisone, 5 ottobre 1925
Cara Emilia,
sei la prima che deve sapere la grande notizia: Louis si è convinto di andare a Torino a cercare lavoro e a trovare un alloggio, così quando a giugno ci sposiamo siamo già organizzati e facciamo il viaggio di nozze a Torino nella nostra casetta.
Sono contenta che hai parlato con Louis, lui ci ha pensato tanto tempo, poi mi ha detto: “Ha ragione tua sorella, qui non abbiamo terra né bestie, se andiamo a stare in città mi trovo un lavoro e tu puoi darmi una mano facendo le ore per le signore. Così mettiamo su famiglia per bene.”
È bello sapere che tu ci puoi aiutare, che conosci già tante signore.
Insomma non vedo l’ora di venire anch’io in città.
Mi dimenticavo di dirti che tutti ti salutano e aspettano tue notizie, soprattutto la mamma che negli ultimi tempi mi sembra più stanca.
Ti abbraccio
Vittoria Bonnet, quasi signora Armand.

 

Dicembre 1925
In questi giorni ho ricevuto una letterina di auguri dal mio nipote più vecchio, Giovanni, dove mi dice che gli è nata una sorellina. Mia sorella Anna è ben incamminata anche lei con i figli che ne ha già quattro.
Giovanni è il più grande, ha dieci anni, è un bel bambino attento a tutto quello che vede, è capace di farsi una macchina con una latta del petrolio e le ruote di legno, spero che lo mandano a lavorare da un meccanico o da un elettricista che quello è bravo a prendergli il mestiere in poco tempo.
Alla sera quando sto per addormentarmi penso a tutte le grosse famiglie delle nostre vallate pinerolesi, ai tanti figli che devono andare a cercare fortuna in Francia e nella Merica e non so se è giusto fare figli come conigli che poi non c’è abbastanza da mangiare per tutti. Forse è questa preoccupazione che non mi ha mai fatta correre in giro a cercare di sposarmi ‘basta ch’a sia’, pur di mettere su famiglia.
Nello stesso tempo essere da sola non è sempre bello, perché non posso neanche andare al Cine o a fare una passeggiata al Valentino, che subito c’è qualche galletto che si fa delle idee e mi disturba.
La signora F. che non è vecchia ma più esperta di me, mi diceva qualche giorno fa: “Attenta Emilia, non dia confidenza agli uomini che son tutti lì pronti a tenere compagnia a una bella figliola come lei. E noi sappiamo quale compagnia vogliono quelli lì!”
“Ma signora, io non parlo con nessuno, altro che dare confidenza.”
“Eh, sono furbi, aspettano un momento di debolezza, di tristezza, e subito ne approfittano per farsi avanti, andiamo a prendere una cioccolata alla caffetteria, e poi è fatta.”
Mi veniva un po’ da ridere perché vedevo a tutti gli angoli delle strade gruppi di giovanotti con i cappelli tirati indietro e con i nasi all’aria come i cani da caccia per sentire meglio le pollastrelle che si avvicinano, per saltargli addosso e mangiarsele in un boccone.
E vedevo truppe di pollastrelle pronte a farsi mangiare.
Ma anche le galline hanno il becco duro e gli sproni taglienti. Che idee ‘baravantan-e’!
Piuttosto mi fanno un po’ impressione alcuni signori del palazzo che cercano delle scuse per parlarmi e mentre mi guardano gli vedo stampato in fronte quello che hanno in mente e mi viene voglia di passare lo straccio del pavimento sulle loro scarpe lucide, così dovrebbero guardare in giù e non tenere sempre gli occhi fissi sulle mie ‘sporgenze’, ma un brivido mi corre lungo la schiena, pagherei cara la mia ribellione, è meglio fare finta di non capire niente, non mi importa ch’am pio per fòla, io  sono la portinaia e niente altro.

 

Torino, gennaio 1926.
Cara mamma,
qui fa freddo e lassù al paese ancora di più, lo so. Qui la neve è bella mentre cade, ma dura poco, a fa ‘na paciarin-a grisa che fa pena a pensare a come è bello sentire gli scarponi che affondano nella nostra bella neve che dura fino a primavera. Qui tutti i negozianti e le portinaie puliscono bene il marciapiede davanti ai negozi e ai palazzi ma la fanghiglia rimane nelle strade e se passa una macchina o un carro la spruzza di nuovo sul marciapiede.
Mamma, non trascurarti, non andare a lavare al gorgh che è coperto di ghiaccio, stai in casa, prendi il tiglio e miele che fa sempre bene e lascia fare le cose faticose a Vittoria e Lucia che se sono grandi da sposarsi sono anche grandi per aiutare. Fatti portare dentro la legna da Bastiano e stai un po’ tranquilla. Anche il papà si riposerà di più adesso che non può correre per i prati e per i campi. Nonna e magna Candida sanno già come prendere la vita con calma, che loro di anni per faticare ne hanno avuti tanti e adesso è giusto che vanno piano.
Mi ha scritto Giovanni, una bella letterina pulita, senza macchie e senza errori, sono proprio contenta. Mi dice che è nata una sorellina e che lui aiuta la mamma che è un po’ stanca perché di notte la bambina non dorme tanto. Speriamo che Anna ha tanto latte come per gli altri figli, che così la tira fuori bene. Quando viene la primavera sarà più forte e crescerà bella come i fratelli e le sorelle.
Per un po’ non posso venire su al paese, saluta tutti e spero di trovarvi bene quando ci vediamo.
Un bacio e un abbraccio dalla tua Emilia.

 

Febbraio 1926
Hanno di nuovo aperto La Stampa, hanno cambiato i padroni e il Direttore, si vede che questi hanno promesso di scrivere le cose giuste.
Ieri c’era scritto che a Parigi è morto un giovane italiano, Piero Gobetti, uno scrittore torinese. Non dicono se è stato per malattia o per un incidente. Non c’è scritto niente. Ho chiesto a qualche signora del palazzo e mi hanno detto – Non so. Una mi ha fatto segno con la testa di entrare in casa e non ha aperto bocca fino in cucina. Nell’alloggio non c’era nessuno ma lei parlava sottovoce lo stesso: mi sono spaventata, forse avevo detto qualcosa che non andava bene. Comunque la signora C. mi ha detto che quel Gobetti era un tipo pericoloso e che un po’ di tempo fa in Italia i fascisti gli avevano dato una lezione e lui era scappato e adesso era morto. Aveva solo venticinque anni e aveva già un bambino. Poveretto. Continuo a non sapere perché è morto e cosa vuol dire ricevere una lezione, ma non ho osato chiedere di più alla signora C.
Ogni tanto per la strada incontro una truppa tutta vestita di nero e con in mano dei corti bastoni. La gente non li guarda in faccia e cambia strada girando al primo angolo. Faccio anch’io così, ho un po’ paura anche se non faccio niente di male.
Queste cose non le scrivo mai ai miei, non voglio che stanno in pena.
Certo che sento una grande nostalgia per l’aria del mio paese e per tutte le persone amiche, ma mi abituo un po’ per volta a tutto.

 

Torino, maggio 1926
Carissima mamma e carissimi tutti,
che giornate piene di sorprese! Sono impaziente di raccontarvi quello che mi è successo: ho avuto l’occasione di andare al Cine e anche senza pagare. Eh, cosa pensate, adesso vi dico.
Le signorine Pistone hanno avuto in regalo per il compleanno i biglietti per andare al Cinema Splendor a vedere una nuova film, ma la loro mamma non stava bene e non se la sentiva proprio di accompagnarle. Il signor Pistone mi ha chiesto se per favore potevo andare io con le figlie che lo facevano impazzire e lui non poteva allontanarsi da casa.
Io mi sono sentita onorata della fiducia e felice di poter mettere piede in una sala elegante e di vedere una film intera, non solo quelle figure scure e confuse che vedevamo alla fiera di Pinerolo, che non si capiva niente.
La storia parlava dei Romani che perseguitavano i Cristiani e un bell’uomo ebreo si innamora di una giovane cristiana e fa di tutto per salvarla. Bisogna saper leggere bene per andare al Cine perché tutte le parole che dicono gli attori sono scritte sotto e bisogna fare in fretta a leggere. E poi fanno vedere quello che ci sarà la prossima settimana, danno dei piccoli pezzi per far venire voglia di vedere tutto il cine: domenica ci sarà un uomo fortissimo chiamato Maciste che va all’inferno per salvare una bella ragazza.
Le sorelle Pistone dicono che hanno già visto altre film con Maciste e a loro piace molto. Chi va al cine è tutta gente che ha studiato, sono persone che vanno in giro vestite bene e lo fanno anche per incontrarsi tra amici.
La film è anche accompagnata dalla musica, a volte solo da un piano, a volte da una mezza banda. Insomma è uno spettacolo!
Quando siamo uscite dal cine siamo andate in una pasticceria a prendere la cioccolata calda con una pasta di meliga, una cosa da leccarsi i baffi!
Poi siamo tornate a casa con il tram aperto, quello che si chiama giardiniera, con le tendine svolazzanti: l’aria era tiepida e dai giardini fioriti arrivavano dei profumi leggeri, che non capivo quali fiori li mandavano. Non avevo parole.
Anche le signorine erano contente e scherzavano, cosa che non fanno con la mamma e ancor meno con il papà che dice sempre di stare composte, perciò hanno detto che sperano di fare di nuovo un’uscita con me.
La signora mi ha ringraziato e mi ha chiesto se non mi offendo se mi dà qualche vestito ancora in buono stato: penso che mi andranno bene perché lei è un po’ più bassa di me, ma l’orlo si può rifare e se c’è qualche altra modifica da fare Giulia ci pensa lei.
So che non va bene parlare solo di me, ma erano cose troppo importanti per non raccontarle a voi tutti.
Spero che quando Vittoria starà anche lei a Torino potrà andare qualche volta al cine e anche Bastiano deve scendere a Pinerolo una volta per vedere questo spettacolo.
Arrivederci a presto, la vostra Emilia.

 

Giugno 1926
Le signorine Pistone sono rimaste impressionate dall’interesse che ho mostrato per il Cinema; nei giorni passati mi hanno imprestato una preziosa collezione di ritagli di giornale che il loro papà ha cominciato a raccogliere da giovane.
Loro dicono che il padre è stato in Francia molti anni fa e lì ha scoperto le immagini in movimento e ne è rimasto fulminato. Da allora raccoglie tutto quello che trova sui giornali che riguarda il cinema e la passione è passata anche alle figlie. Hanno dei grossi quaderni con i fogli spessi (loro li chiamano album) dove incollano i ritagli, mettono la data e altre notizie scritte a mano. Sono molto interessanti.
Ho saputo che Torino è una delle ‘Capitali del Cinema’ e ho scoperto che qui ci sono decine di Sale cinematografiche.
Molte film sono state scritte da veri scrittori, altre sono storie un po’ tutte uguali, che ne fanno tante in un anno! Nelle film riescono a far sembrare le rive del Sangone delle spiagge immense e nei campi pieni di bruere di Madonna di Campagna hanno girato le battaglie del Risorgimento d’Italia.
Le sorelle Pistone mi hanno spiegato che tanta gente dice ai figli “Non fare il cine” quando questi esagerano a lamentarsi o a fare ‘caprissi e matan-e’.
Insomma il cine è tutta una finta, ma come mi piacerebbe andarne a vedere tanti, magari tutte le domeniche. Però quanti soldi dovrei avere? Mi accontento di leggere le storie dai giornali e dai libri che mi imprestano.

 

Giugno 1927
È passato un anno intero da quando ho scritto l’ultima volta. Non è stato un anno facile.
Veramente l’altr’anno sono stata a casa per il matrimonio di Vittoria, che ha avuto una festa bellissima e poi ci sono state due nascite di nipotini che mi hanno molto rallegrata. Ho visto la mia famiglia crescere serena, è stata una consolazione.
Ma dicono che se c’è una fortuna ti devi aspettare una disgrazia e questa volta i proverbi hanno avuto ragione.
La prima a morire è stata nonna Maria e le eravamo tanto affezionati, visto che era sempre stata con noi, ma poi è toccato in pochi mesi a mamma e papà e questi sono stati bocconi amari da digerire, perché loro non erano molto vecchi e li abbiamo sempre visti svelti, mai fermi, mai malati. Se ne sono andati così, in silenzio, senza dolore, per il cuore tutti e due.
Era tanto tempo che ero fuori casa, però per me quella era sempre la mia casa, mentre c’erano loro avevo un legame forte con il paese e con la famiglia; adesso mi sembra di aver perso un pezzo di corpo, una mano, che sempre ti viene di usarla e non ce l’hai più.
Adesso mi viene sempre in mente quello che dicevano mamma e papà, quello che volevano per noi figli, come parlavano dei nipoti.

Dei nostri vecchi rimane solo magna Candida che, come dice Bastiano, à davan-a sempre ‘d pì. Poverina, bisogna fare attenzione che è capace di mettersi per la strada en camisa e con le pantofle anche se piove.
Io di qui non posso fare niente, spero che le ‘sorelline’ che ormai vanno per i diciotto anni si danno da fare per assisterla bene e per fare tutti i lavori.
Le signore del palazzo mi hanno invitata a prendere un caffè e una pasta, mi hanno detto che capivano il mio dolore, qualcuna mi ha chiesto di accompagnare a passeggio i bambini, così conoscevo qualche balia e potevo scambiare due parole.
Sono piccole cose che aiutano, io mi sto mettendo d’impegno per superare questo brutto momento.

 

Val Chisone Luglio 1927
Cara zia,
da quando qui non ci sono più i nonni sembra che tutti abbiano perso la capacità di pensare. Zio Bastiano e le zie lavorano tutti continuamente e non pensano a niente altro che sempre lavorare.
Mia mamma ha detto che adesso tocca a me scriverti, perché lei non trova mai un minuto per farlo, però ti pensa sempre.
A me non dispiace scriverti e allora accontentati: non sarà nessuna delle tue sorelle ma il tuo nipote più vecchio a mantenersi in contatto con te.
Prima di tutto devo dirti che qui tutti stiamo bene, anche magna Candida, la mia famiglia cresce, ora siamo cinque figli, io cerco di aiutare ma sto tutta la settimana a Pinerolo a fare l’apprendista elettricista e alla sera studio, perciò vengo a casa solo la domenica e capisci che è poco.
Quando vado alla casa dei nonni mi sembra sempre di veder spuntare dalla cucina la nonna con ‘l faodalèt e le manie arvertià e di sentire il nonno nella stalla che parla con le mucche e con Moret, povero cane, anche lui lo cerca.
Mi piace ricordarmi dei nonni perché gli volevo bene e loro mi parlavano sempre con gentilezza. Adesso so che ho imparato tante cose da loro e spero di ricordarmele.
Cara zia Emilia, mandaci tue notizie che ci fa piacere sapere come stai e come lavori.
Ciao da Giovanni e da tutta la famiglia.

 

Torino, settembre 1927.
Caro Giovanni,
hai scritto una bella lettera, anche se sei molto giovane, ma si sente che sei affezionato alla tua famiglia. Scrivimi pure che mi fa piacere.
Fra un po’ andrai a fare il soldato e magari avrai una morosa, così sarai capace di scriverle delle belle lettere.
Intanto scrivi alla ‘vecchia’ zia.
Anch’io sto bene ma penso sempre al paese, alla mia casa e ai miei genitori. È stato un duro colpo perderli così in pochi mesi. Il peggio è che ero lontana e non ho potuto fare niente.
Io qui lavoro tutti i giorni, a volte anche la domenica, ma è un caso che ci sia qualcosa di urgente da fare alla festa. Può nevicare di notte o esserci un temporale forte che fa qualche disastro nelle cantine o per le scale e allora cerco subito di rimediare.
Di solito alla festa vado a messa presto che mi sono rimaste le buone abitudini della campagna. Non mi piace andare a messa granda perché c’è troppa ciancia, troppo pettegolezzo, pensa che la messa delle undici è chiamata d’le plandre ma io la chiamerei d’le madame che devono mostrare il vestito nuovo e parlare male di questo e di quello.
Quando sono libera leggo molto, poi esco con qualche altra portinaia, ma è difficile trovare gente libera la domenica: quasi tutte hanno fidanzati o famiglie da incontrare.
Gli altri giorni ho più occasioni di parlare con le signore del palazzo e alcune sono proprio gentili e intelligenti. Molte hanno studiato e parlano dei fatti che capitano e mi spiegano delle cose che io non capisco.
Ti sembrerò noiosa ma ti raccomando di studiare, di leggere, di informarti, perché non se ne sa mai abbastanza. La gente non deve restare ignorante, andare dietro a un capo senza ragionare, che allora siamo come le capre che ne seguono una, anche se cade in un burrone. Finita la predica. Scrivimi quando puoi, grazie.
Saluti affettuosi a tutti, Emilia

 

DUE CARTOLINE POSTALI

Val Chisone, settembre 1927
Zia Emilia,
se vuoi che continuo a scriverti non mi parlare di femmine, che sono tutte sceme, sempre lì a sussurrare dietro la mano. Non voglio nessuna morosa, io!
Giovanni.

 

Torino, ottobre 1927
Caro Giovanni,
non essere così moschin, era solo uno scherzo! Credo che le ragazze che conosci adesso siano tutte sciocchine e forse neanche tanto belle. Non c’è nessuna fretta di cercarsi una morosa, anzi è meglio se pensi ai tuoi impegni, che sono tanti. Se poi incontrerai una brava ragazza magari cambierai idea. Comunque non ti parlerò più di femmine se non ti va, però scrivimi, mi raccomando! Zia Emilia

 

Torino, febbraio 1928
Caro Giovanni,
spero che tu vada bene sia sul lavoro che alla scuola. So che hai tanti impegni, ma ti mando lo stesso una serie di giornali per ragazzi. Qui a Torino stampano tanti giornalini con storie di avventure, viaggi, esplorazioni, con delle belle tavole colorate; penso che piaceranno a te e ai tuoi fratelli più piccoli. Li ho avuti da una signora del palazzo che ha un nipote un po’ più vecchio di te. Questo ragazzo legge molto e fa la collezione dei giornali, ma adesso sta crescendo e li voleva buttare, allora la signora R. si è ricordata che io ho dei nipoti giovani, così ha pensato di regalarmi un bel pacco di giornalini. Li ho sfogliati anch’io e sono rimasta colpita dalla bellezza delle figure e della carta, fatta anche per essere colorata a casa dai bambini. Uno di questi giornali è pieno di storie prese da romanzi famosi, così i ragazzi si avvicinano a libri importanti e più avanti li leggeranno per intero. Ce ne sono altri con storie sull’Africa e sui selvaggi e poi c’è un giornale intitolato Il giovane inventore, e secondo me è il più giusto per te che sei così pronto a seguire un’idea fino a tirarne fuori un’invenzione.
Ti mando il pacco da zia Vittoria che in questi giorni verrà a trovarvi. Mi raccomando, non farti sgridare per leggere i giornalini e non studiare, guai a te! Altrimenti non ti mando più niente. Ma io so che sei bravo, che ti impegni in tutto e anche i giornalini ti insegneranno qualcosa.
Tanti saluti a tutti da zia Emilia.

 

Marzo 1928
In giro il sabato ci sono solo più bambini vestiti da Balilla, con il moschetto di legno a tracolla e vanno tutti nei campi sportivi a marciare, a esercitarsi a sparare, a giocare alla guerra. Secondo me giocare a pallone o a nascondino sarebbe più divertente, ma adesso tutti devono essere forti per conquistare nuove terre. Anche le bambine e le ragazze fanno ginnastica in piazza per essere delle perfette Giovani Italiane e intanto si preparano a fare tanti figli perché così l’Italia sarà più forte.
Se questa voglia di ‘forza’ vuol dire fare un’altra guerra non mi piace per niente, perché abbiamo ancora i segni dell’altra sulla pelle, che non sono passati neanche dieci anni da quando è finita e tutte le famiglie hanno avuto almeno un morto e i feriti che sono tornati con una gamba o un braccio in meno e adesso sono ridotti a chiedere l’elemosina e altri stanno in casa malvisti, che sembra quasi che mangino pane a tradimento. No, la guerra non è buona per nessuno!
È solo che adesso tutti dobbiamo ascoltare i discorsi di Mussolini e fare quello che dice lui. Ogni tanto qualche signora si lascia scappare un sospiro e mormora “Ah, le leggi fascistissime! Dove andremo a finire?” Io non chiedo mai niente perché la gente non ha voglia di parlare, qualcuno sussurra, sospira e chiude la porta.
L’unico che si lascia un po’ andare è il professor Genovese. È un bravo insegnante del Liceo, ma sembra che qualche collega lo guardi male perché non usa la camicia nera. Mi hanno detto che è un ebreo. Non mi sembra una persona strana: ha una certa età, è sempre ben vestito, sempre in perfetto orario, gli studenti lo temono ma lo apprezzano, ha due figli all’Università; nella sua casa passano i pomeriggi a studiare, alla sera ascoltano la radio come tutti, non fanno niente di speciale. Forse sì, sia il professore che i ragazzi non vanno in piazza a sentire i discorsi di Mussolini, ma non sono gli unici. Non so niente degli ebrei, ma mi sembrano persone per bene, come tanti.

 

Gennaio 1929
Da un po’ di tempo c’è un nuovo impiegato alla Posta: è una persona sulla quarantina, un bell’uomo, gentile. È sempre disponibile per aiutarmi a compilare una raccomandata o un vaglia, che sono gli incarichi che mi danno dal palazzo e ormai li so fare da sola, ma lui cerca di attaccar bottone in qualche maniera.
Non so niente di lui e non voglio neanche chiedere in giro, perché i pettegolezzi sono sempre pronti a partire e fanno in fretta a ingrandirsi fino a dire che ci siamo fidanzati. E questo non mi piace, io non mi interesso degli affari degli altri e non voglio che gli altri chiacchierino su di me e su cose che non esistono!

 

Aprile 1929
L’impiegato della Posta si chiama Augusto. Ieri mi ha chiesto se sabato pomeriggio potevo andare in centro per incontrarsi a parlare lontano dal quartiere, così la gente non si fa idee strane. Gli ho detto di sì, proprio perché mi è sembrato che anche lui  ci tiene a non attirare le malelingue.
C’è una temperatura primaverile, ideale per mettere una giacchetta leggera insieme al vestito chiaro ancora bello, quello fatto da Giulia tre anni fa ma che mi sta sempre bene. Metto il cappellino di paglia con le roselline? Come scarpe non sono molto fornita, ma con una bella lucidata quelle nere vanno  bene.
All’una di notte mi sono svegliata di colpo e ho riletto le ultime frasi scritte qui e mi sono detta “Emilia, sei diventata scema? Sembra che ti prepari per un appuntamento con el Prinsi. Quell’uomo ti ha chiesto di fare quattro passi in via Po, sotto i portici, in mezzo alla gente, non c’è niente da nascondere e niente da mostrare. Che bisogno c’è di farti bella per incontrare un uomo che vedi tutti i giorni  all’Ufficio Postale, tu col grembiule nero e lui con le soprammaniche?”
Allora mi sono guardata allo specchio del comò, spettinata e in camicia da notte, con gli occhi gonfi di sonno e mi sono messa a ridere: non è il caso però che mi veda così, di sicuro!
Mi metterò a posto perché andrò a fare una passeggiata in centro, niente altro.

IERI
Sono scesa dal tranvai in Piazza Castello e ho visto subito Augusto che mi aspettava. Era diverso da come si presenta in ufficio, sempre un po’ distaccato. Indossava una muda chiara e una cravatta a papillon azzurro, come il nastro del cappello di paglia. Ho notato subito il suo sorriso nel vedermi arrivare: il mio vestito ha i fiori dello stesso azzurro. Ci siamo dati la mano salutandoci poi abbiamo cominciato a camminare sotto i portici.
Intorno a noi passava molta gente che si salutava: “Cerea, madamin” “Cerea ,monsù” “Ch’an saluta sua mama, neh? Ch’ai disa ch’an porta nen la vesta, j venu a piela mi, grassie neh?”
Quanti nen e neh ho sentito! Qui nessuno dice pa come facciamo noi montanari, il linguaggio è  più dolce.
Noi camminavamo senza parlare perché intorno c’era confusione, ma poi a metà strada Augusto mi ha guidata in un Caffè coi tavolini dentro e fuori: noi ci siamo accomodati in un angolo tranquillo e davanti a una tazza di cioccolata ci siamo un po’ parlati.
“Signorina Emilia, mi sono permesso di chiederle questo incontro perché vorrei conoscerla meglio. Non nascondo che lei mi ha colpito per l’eleganza del portamento e per la serietà che mostra nel suo lavoro. Spero che il mio interesse non sia male interpretato o che la infastidisca in quanto il suo cuore non è libero. Vorrei veramente conoscerla di più e poter progettare altri incontri, sempre che non la disturbi.”
“Non ho nessun impedimento, nessun legame; sono venuta a Torino per lavorare e finora non ho conosciuto nessuno con cui avessi voglia di parlare e di stare un po’ insieme.”
“Temevo di essere importuno. Voglio spiegarle chi sono e conoscere qualcosa di lei.”
In poche parole mi ha raccontato di suo padre emigrato e morto in Francia, di sua madre morta giovane, stanca del troppo lavoro fatto per permettere ai due figli di andare a scuola. La sorella Marta è andata a servizio in Francia a quindici anni e Augusto è rimasto completamente solo a Torino.
“Ecco tutto: la solitudine è stata la mia unica compagna per lunghi anni.” ha concluso con amarezza  “ Ho trovato consolazione nel lavoro e nella lettura.”
Mi sentivo a disagio a parlargli della mia grande famiglia: io son vissuta in mezzo alle risate, alle chiacchiere, ai bisticci di fratelli, sorelle, nipoti, nonni, zii, genitori.
Augusto ha riso per le nostre discussioni su chi doveva andare a prendere l’acqua e chi si doveva occupare delle galline. Lui non conosce le galline e soprattutto i galli, bestie malfidate che ti aggrediscono alle spalle e alle caviglie e danno beccate da lasciarci pezzi di carne!
“Non ridevo mica quando mi toccava, mettevo gli stivali e tenevo d’occhio le bestiacce” Però a pensarci mi diverto, adesso.
Era tanto tempo che non parlavo così volentieri con qualcuno! Con le mie signore non parlo di esperienze passate, al massimo discutiamo qualche notizia del giornale o qualche ricetta.
Abbiamo ancora camminato un po’ e questa volta Augusto mi teneva per il gomito, per guidarmi in mezzo alla gente che affollava i portici. Questo contatto leggero non mi ha dato fastidio, anzi mi sembrava di sentire un calore piacevole al braccio.
Ha preso anche lui il tram verso il Lingotto ma è sceso alla fermata prima della mia, per discrezione.
Mi ha promesso in prestito un libro di De Amicis, che a lui è piaciuto tanto. Forse me lo porta in ufficio o forse con la scusa del libro mi invita un’altra volta. Non vedo l’ora di andare alla Posta per svolgere qualche commissione. Non posso certo entrare senza un motivo valido.

 

Maggio 1929
Come poteva mandarmi un libro, se non con la posta? È arrivato un piccolo pacco indirizzato Alla Signorina Emilia Via Filadelfia n. 28; non c’era il cognome che forse Augusto non lo conosce, ma sa che la posta in arrivo passa sempre attraverso le mie mani, non mi poteva certo sfuggire. E comunque aspettavo questo libro in prestito!
Ho aperto con trepidazione: c’era il libro di De Amicis “La carrozza di tutti”, ma c’era anche una lettera.

Torino, 3 maggio 1929
Gentile Sig.ina Emilia,
le inoltro il libro promesso e approfitto dell’occasione per ringraziarla di essere uscita con me a passeggio.
Da tempo frequento poche persone al di fuori dell’ambiente lavorativo, non parlo molto e temo sempre di essere importuno, ma questa volta ho trovato il coraggio di avvicinarmi a lei, spinto dalla gentilezza e dalla semplicità che emanano dalla sua persona. Le confesso che mi sembrava di sentire il cuore leggero mentre la guidavo tra la folla di Via Po. Nei suoi occhi e nel suo sorriso vedevo una luce nella quale volevo continuare a camminare.
Non sono abituato a farmi trasportare dall’entusiasmo e a ragionare col cuore anziché con la mente, ma in questi giorni mi sento diverso. Se fosse così gentile da accettare un altro mio invito, vorrei portarla al Cinema e poi ancora a camminare per approfondire la conoscenza.
Ringraziandola fin da ora, riceva i miei sinceri saluti.
Augusto Ricchiardi.

Ho riletto parecchie volte questo scritto: lascia trasparire qualche emozione che non mi disturba per niente, al più mi vien da sorridere per le giravolte che fa sul discorso del cuore.
Insomma, forse gli piaccio.
Io non ho ancora ragionato su questa persona; sono sicura di non provare distacco o repulsione, che sono sentimenti ben chiari, invece sento in me un interesse velato, un moto di piacere nel sentire che vuole rivedermi. Devo confessare che Augusto non mi lascia indifferente.
Domani passerò alla Posta per confermare la mia presenza sabato prossimo alla stessa ora, allo stesso posto.

9 maggio 1929
Ho cominciato subito a leggere “La carrozza di tutti”.
De Amicis amava molto la sua città, ambienta tutte le sue storie a Torino. Qui parla dei tranvai che attraversano Torino in lungo e in largo e stiamo parlando del 1899, ma a me sembra molto attuale. Leggendo viene voglia di salire in questa specie di salotto viaggiante, di girare la manovella del conducente e di farsi scarrozzare qua e là per conoscere meglio la città. Dice De Amicis che molte persone vivono sole e vedono il tranvai come l’ultimo ponte mobile che li unisce alla città.
“Costoro sul tranvai cercano i piaceri della conversazione, fanno nuove conoscenze, raccolgono notizie e quando rincasano non parlano che della gente e dei piccoli casi veduti nelle loro corse, come se per loro non ci fosse altra società fuori di quella che corre sulla gran rete di ferro”.
Mi piace anche come De Amicis, vedendo due persone qualsiasi sul tranvai, riesce a inventare su di loro una storia: amori non ancora sbocciati, amori contrastati, amori proibiti. Sabato mi guarderò attorno per scoprire qualche personaggio strano e per provare a costruirgli attorno una storia.
In realtà mi è venuto da pensare a come la gente vede me e Augusto insieme sul tranvai. Qualcuno può pensare che siamo una coppia formata da tempo: si vede che non siamo giovanissimi e invece noi per ora non siamo una coppia.
Penso tutto il tempo “Se Augusto rivela qualcosa dei suoi sentimenti, se Augusto mi prende sotto braccio… io come mi comporto?”
Torno a pensare che non mi è per niente indifferente: ha una bella figura, un bel linguaggio, è un po’ timido ma non apprezzerei che mi assalisse con abbracci e baci prima di aver capito qualcosa del nostro sentire reciproco.
Per ora resto nell’incertezza.

 

Sabato 18 maggio.
Come l’altra volta ci siamo vestiti bene tutti e due, segno che teniamo molto a questo incontro. Augusto mi ha proposto di andare subito in un Cinema poco lontano da Piazza Castello dove davano “La Grazia” del regista Aldo De Benedetti, che Augusto apprezza e di cui ha visto altre opere.
Sembra che presto arriverà il sonoro anche in Italia, cioè si sentiranno gli attori parlare e le musiche saranno dentro la pellicola. In qualche paese hanno già fatto questo cambiamento e sembra molto gradito dal pubblico.
“La Grazia” è tratto dalla novella “Di notte” di Grazia Deledda, una scrittrice sarda di cui ho letto “Canne al vento” un romanzo molto triste sulla sorte delle donne in Sardegna.
In questo film (Augusto dice che hanno cambiato il genere alla parola film, che è diventata maschile) c’è una forte figura femminile che si ribella ai luoghi comuni dominanti in Italia e decide di vendicarsi del tradimento e delle promesse mancate di Elias che resterà solo nel suo silenzio.
La grazia si ha nel finale quando un fulmine colpisce “la figlia della colpa” lasciandola svenuta tra le braccia del padre che non la conosce. È un finale inaspettato, bellissimo. Mentre uscivamo dal cinema ho visto gente commossa e anch’io avevo il fazzoletto in mano. Durante la scena del fulmine Augusto mi ha preso la mano come per proteggermi e poi siamo usciti ancora così vicini.
Al tavolino del bar eravamo meno impacciati dell’altra volta, sembrava che ci conoscessimo da tempo. Abbiamo parlato del libro che sto leggendo in fretta perché mi piace molto, del film appena visto e poi Augusto si è lanciato in un discorso piuttosto difficile: con un giro di parole è riuscito a dirmi che sta bene con me, che ci terrebbe a frequentarmi di più se io sono d’accordo, insomma che potremmo parlarci per un po’ e poi vedere che cosa succede.
Non posso dire di essere stata sorpresa, un po’ me l’aspettavo, ma mi ha fatto piacere sentire le sue parole di apprezzamento non solo per come porto avanti il mio lavoro ma anche per come mi vesto, per come mi muovo, per come sono in generale.  Tutti questi complimenti mi hanno fatto un gran piacere, così mi sono sentita dire delle cose che non pensavo avrei avuto il coraggio di esprimere. Gli ho detto che anch’io stavo pensando a lui come a una persona speciale, interessante, educata.
Per ora non ci siamo sbilanciati di più. Io non so ancora se questo sia amore, non sento il cuore fare capriole, come dicono le eroine di Liala, ma sento la testa leggera, piena di idee sconosciute. Non voglio diventare una “fanciulla da romanzo rosa” tutta illusioni e batticuori, io sono una donna che sa di poter vivere da sola ma che non rifiuta una gradevole presenza maschile con cui scambiare opinioni e per farci un po’ di compagnia.
Siamo rimasti d’accordo che tra due sabati andremo a fare una passeggiata al Valentino, ma intanto ci incontreremo nel quartiere per un caffè.

 

10 giugno 1929
Ho sempre amato i boschi per l’ombra e per i frutti, ma non li avevo mai visti piacevoli per le passeggiate in compagnia di una persona con cui parlare. I boschi delle mie vallate sono quasi tutti ripidi e faticosi da percorrere, non come i meravigliosi boschetti circondati da prati e fiori come ho visto al Valentino. Camminando vedevo le calme acque del Po scorrere a pochi passi da me, vedevo le barche scivolare nel centro della corrente spinte da rematori esperti, vestiti allo stesso modo, a seconda di quale società di canottieri appartengono. Ce ne sono molte al Valentino, fanno anche delle gare. Deve essere bello vederli remare per vincere, sabato non c’erano gare, anche i canottieri erano lì per divertimento.
Augusto mi parlava di quanta gente vive grazie al fiume, pescando o tirando su la sabbia che serve per costruire le case. Diceva anche che sulle rive del Po si fanno grandi feste con luminarie spettacolari.
Più avanti invece ci sono le lavandaie che tutti i giorni, col caldo o col freddo, lavano la roba dei signori e poi la stendono ad asciugare lungo le rive del Po.“Passando sul ponte che esce da piazza Vittorio sembra di vedere sotto una foresta di lenzuola e tovaglie stese al sole. C’è un intero quartiere, Vanchiglia, che si occupa del lavaggio dei panni” ha detto Augusto “ma c’è molta gente che è disturbata da uno spettacolo così degradante. Si parla di proibire la stesura dei bucati. Dicono che Torino è una città seria ed elegante, non può continuare a mostrare i suoi panni sporchi in questo modo”
“Veramente non sono più sporchi se le lavandaie li hanno stesi ad asciugare”
“Hai ragione Emilia, ma dire ‘panni sporchi’ piace tanto alle persone che disprezzano il lavoro degli altri”
“E poi che ne sarà di tutte le lavandaie, dove andranno a finire?”
“Forse le sposteranno in qualche posto meno in vista, perché molti torinesi avranno ancora bisogno di loro, ti pare?”
Senza accorgercene ci siamo dati del tu.
Poco dopo ho scoperto che la madre di Augusto è morta per una polmonite contratta sul fiume a lavare in mezzo al ghiaccio. Che vita dura deve aver fatto, povera donna.
Più tardi abbiamo preso il tranvai e questa volta siamo scesi insieme alla nostra fermata, senza preoccuparci di essere visti.

 

12 giugno 1929
Oggi sono stata a lungo nel giardino del palazzo, facendo pulizia di rami secchi, erbe infestanti e fiori appassiti. Nessuno è venuto a disturbarmi. Avevo bisogno di lavorare in solitudine per pensare a me stessa, ai miei sentimenti e per prendere qualche decisione.
Con Augusto sto bene, lui non mi fa mai sentire a disagio, è pronto a condividere con me argomenti sconosciuti, non per impormi le sue idee, ma per discuterne insieme, mi ascolta con interesse quando esprimo dei pareri, mi apprezza per come sono, non cerca di cambiarmi.
Uno che affermasse “l’ho detto io che sono un uomo, perciò tu devi fare così, senza discutere” mi farebbe scappare a gambe levate: da troppo tempo ho imparato a cavarmela con le mie forze, non potrei tornare indietro, dipendere da un uomo, sia esso padre o fratello o marito non fa per me. Se Augusto fosse quel tipo di persona avrei evitato di discutere, me ne sarei tenuta alla larga.
Io come sono nei suoi confronti? Tranquilla e fiduciosa.
Guardando il lavoro svolto oggi mi sono accorta di aver tagliato “con amore” le rose sfiorite e di aver rasato l’erba intorno alle piante con attenzione, senza accanirmi a sradicarle. Allora è vero, pensare mi ha rilassata? Voglio che lo conoscano a casa mia.

 

Torino, 14 giugno 1929
Caro Giovanni,
da tempo non ci siamo scambiati molte lettere, però spero che questo sia dovuto ai tanti lavori che tutti voi avete e non alla mancanza di salute.
Anch’io ho trascurato la corrispondenza per diversi motivi: sono uscita spesso, cosa che finora non avevo fatto e ho incontrato persone nuove.
Sto anche dando una mano ad altre portinaie del quartiere per garantirmi alcuni giorni liberi che verrò a trascorrere nella mia casa natale ospite di Bastiano e di sua moglie.
Poi ho bisogno di un favore grande, caro Giovanni, devi dire a tua madre di preparare una stanza per una persona che voglio invitare nel nostro borgo. Dì ad Anna che è un ospite a cui tengo molto, lei saprà sistemare una stanza pulita e accogliente. Poi vi racconterò.
Spero di vedervi tutti in salute e in allegria quando verrò su ai primi di agosto.
Un affettuoso abbraccio a tutti.    Zia Emilia

 

 

Luglio 1929
Portare Augusto a conoscere Anna e Piero mi sembra una decisione saggia, da non rimandare, anche perché adesso ci saranno alcuni giorni liberi per lui e io sarò sostituita da qualche amica.
Ho preferito non dire ancora ad Augusto che cosa sto organizzando: spero che la sorpresa gli piaccia.
Oggi Augusto è venuto a mangiare un piatto di pasta e un’insalata nel mio piccolo alloggio. L’ho invitato perché voglio che veda come vivo, non voglio che pensi a me come a una poveretta che si attacca al primo venuto. Io sono orgogliosa del mio lavoro e del mio alloggio e lui deve capire che non ho intenzione di rinunciare alla mia indipendenza in caso di matrimonio. Queste cose non le ho espresse a parole, ma la mia fierezza appariva nello splendore dei vetri nell’atrio, nei fiori sulla finestra della cucina, negli asciugamani freschi di bucato nel bagno. Se è intelligente come sembra ha capito il messaggio.
Quando è arrivato ero nervosissima, mi sembrava di non riuscire nemmeno a girare la pasta o a scolarla, poi lui ha tagliato il pane, ha condito l’insalata e mi è sembrato che ormai facesse parte dell’ambiente. Ci siamo messi a ridere nello stesso momento: stavamo pensando a come si stava comodi in due nella mia cucina.
“Da tanto tempo non ho una cucina e non mi posso neanche preparare una minestra. Ti invidio molto per questo alloggio, piccolo ma confortevole. Nella mia pensione non posso cucinare niente, la mia padrona di casa prepara quel che vuole e i pensionanti si adattano. Tu hai la libertà di decidere, io no.”
Io ho solo sorriso, orgogliosa degli apprezzamenti.
Dopo pranzo Augusto è rientrato subito al lavoro, ma mi ha lasciato due lettere scritte anni fa da sua sorella Marta dalla Francia dove lavora come cameriera. Anche lui vuol farmi conoscere la sua famiglia! La mia idea di portarlo in Val Chisone per incontrare alcuni dei miei parenti più cari non è sbagliata. Per ora non ho avuto il tempo di dirglielo, ma sono sicura che accoglierà bene il mio invito.
Trascrivo le due lettere perché mi piace pensare a Marta come una donna con cui potrei essere amica, siamo quasi coetanee e la voglia di andare via da casa per cercare la “nostra strada” ci unisce.

 

Allemagne-en-Provence, 25 luglio 1914
Caro Augusto,
voglio ringraziarti per avermi dato il permesso di partire. A me dispiaceva pensare di lasciarti solo a Torino, però non potevo farmi scappare l’occasione di viaggiare in compagnia di una famiglia conosciuta, seria e rispettabile, che già sapeva dove andare e che aveva qualche idea per la mia sistemazione. Quando sono arrivata qui mi è sembrato di finire in una bottiglia di lavanda, di quella che usava la signora Agnese del secondo piano, che quando passava nella scala lasciava un profumo delizioso che restava a lungo nell’aria e noi uscivamo di nascosto a respirarlo. Ti ricordi?
Qui ci sono immensi campi di colore violetto, la lavanda è coltivata per chilometri in questo paese profumato. È una meraviglia!
Mi hanno detto che non è sempre così, nei mesi in cui la lavanda non è fiorita non si sente tanto l’odore, però io il profumo lo sento nelle stanze, negli armadi, è fantastico!
So già che starai dicendo: “Il solito entusiasmo infantile per le novità.” Ma non è così, sono finita davvero in un bel posto. Ora te lo dico: abito in un castello!
Certo, ho una camera nella zona della servitù, ma ho una piccola finestra affacciata sulla campagna circostante e ti garantisco che il panorama che vedo di qui mi ripaga delle corse che mi tocca fare per le scale per rispondere alle richieste dei miei padroni.
Non ti ho ancora parlato di loro perché volevo prima di tutto convincerti che sono contenta.
Dunque, adesso ti fornisco qualche notizia “anagrafica e topografica”.
Dicevi: “Prima inquadra il luogo e i protagonisti, poi racconta la tua storia.” Lo so, io mi faccio trascinare dall’entusiasmo e confondo le cose.
I miei padroni sono il Conte e la Contessa Sorel, sono entrambi sui trentacinque anni e hanno tre figli, due maschi e una femmina. Questi ragazzi sono poco più giovani di me e io sono incaricata di parlare con loro un buon italiano, perché fra qualche anno andranno a fare un giro nelle città più belle d’Italia e dovranno conoscere un po’ la lingua.
Veramente non so se tutti andranno a visitare l’Italia, perché solo il maggiore erediterà il titolo di conte; il secondo entrerà presto in un monastero per diventarne il Priore cioè il capo (come fanno a saperlo già adesso che ha dodici anni non lo so, mah). La ragazza, poi, sarà destinata a un bel matrimonio, dovrà fare molti figli per mantenere i titoli nobiliari e avrà poco tempo per andare in giro.
Comunque, con loro faccio conversazione e lettura di libri classici per ragazzi, scritti o tradotti in italiano. Abbiamo già letto L’isola del tesoro e Ettore Fieramosca. Non ricordavo bene la faccenda della disfida di Barletta, altrimenti avrei sorvolato su un romanzo che scatena istinti di rivalsa nei confronti degli Italiani. Per fortuna il Conte è intervenuto con parole intelligenti a calmare i due maschi. Ora siamo passati ai Tre Moschettieri, molto appassionante, ma che non coinvolge gli Italiani. Non sempre conosco le parole giuste per spiegare certe situazioni.
Per fortuna, quando sono in difficoltà la Contessa mi dà una mano. Spesso ci facciamo delle belle risate e andiamo avanti a leggere cose più comprensibili.
Tutti mi parlano in francese e io ho migliorato le mie conoscenze della lingua: era poco quello che avevo imparato alle Scuole professionali, ma ora comincio a capire e a rispondere. Sono soddisfatta di me!
Ti ho già detto che vivo in un castello, con le torri e il muro di protezione, ma ora queste cose non servono più per difesa; hanno ricavato delle stanze dappertutto, così ci sono le camere per il Conte e quelle per la Contessa, quelle per i figli, quelle per lo studio e per la musica, i saloni di ricevimento e la biblioteca, la casetta per il giardiniere e le stanze per la servitù, le stalle per i cavalli e la carrozza, le cantine bellissime, con gli archi e con le botti. La grandezza della cucina e la bellezza delle sue attrezzature è indescrivibile.
Il castello si chiama Chateau aux parfum, perché si trova in mezzo ai campi di lavanda, ma ha anche un giardino che i Conti chiamano “dei Semplici” ed è uno scherzo per ricordare un bellissimo giardino visitato a Firenze. Qui sono coltivate piante aromatiche di tutti i tipi, alcune da usare in cucina e altre per profumare l’ambiente.
Io per ora aiuto in cucina, la Contessa mi chiama spesso per piccole commissioni e soprattutto leggo e chiacchiero con i ragazzi. Indosso una divisa azzurra, diversa da quella delle cameriere, non so ancora quale sarà il mio lavoro futuro, però mi impegno in tutto, tu hai sempre detto che qualsiasi lavoro va fatto bene e io seguo i tuoi insegnamenti.
Credo di averti dato un’idea della mia vita, non preoccuparti per me, io non esco di qui e vivo in mezzo a persone serie, perciò stai tranquillo.
Se avrò novità te le comunicherò. Cerca di non lavorare troppo e di stare in buona salute. Se vuoi rispondermi mi farà piacere avere tue notizie, ma mi accontento anche di una cartolina.
À bientôt. Ta soeur Marte.

 

Allemagne-en-Provence, dicembre 1918
Caro Augusto,
non ci siamo scritti da lungo tempo, la guerra non ha favorito le comunicazioni, anche se per noi è stata come un rumore lontano, non abbiamo subito conseguenze, abbiamo sempre mangiato i nostri prodotti e nessuno ha patito la fame. Tra gli abitanti del castello nessuno è dovuto partire per il fronte, perciò per noi non è stato duro come per la maggior parte delle famiglie che vivono fuori dal castello. Spesso venivano i bambini dal paese a chiedere da mangiare, la cuoca ed io davamo loro un po’ di verdura e qualche pezzetto di carne: la Contessa dice che dobbiamo aiutare tutti e noi l’abbiamo fatto.
I bambini ci hanno regalato pigne, sassolini bianchi, mazzetti di lavanda e di fiori di campo: la cuoca era commossa. Io ho fatto dei cestini con questi semplici regalini e li ho messi nelle stanze per decorarle.
Quasi mi vergogno della vita serena che abbiamo vissuto qui, so che ci sono stati tanti morti e feriti, ma noi abbiamo continuato la vita di sempre, con meno visite e meno feste, però eravamo tranquilli.
Il primo figlio dei Conti fa parte di un reggimento di rappresentanza, è impeccabile nella sua uniforme e non l’ha certo sporcata nel fango della Somme.
Il secondo è già partito per il suo monastero, che è piuttosto lontano, non lo vediamo mai.
Io sto molte ore con Josephine, la figlia dei Conti: leggiamo, parliamo, ricamiamo… Lei suona e dipinge, sa fare tante cose, ma è preoccupata per il suo futuro: conoscerà un giovane di cui si potrà innamorare o sarà costretta a sposare la persona scelta dal padre? Ecco un problema che io non ho: non conosco nessuno, perciò sono tranquilla, non vedo la necessità di sposarmi, ho un lavoro che mi piace, sto bene in questa famiglia, ho un piccolo conto in banca, non mi serve altro.
Mi sembra che anche tu non sia molto portato al matrimonio, quindi non criticare la mia scelta e io non criticherò la tua.
Spero che anche tu non abbia subito grossi disagi durante la guerra, mi avevi detto che per fortuna non ti avrebbero richiamato in servizio perché il tuo lavoro era utile per le comunicazioni tra il fronte e le famiglie, perciò sono stata serena pensandoti a Torino.
Continui a leggere tanto? Dovresti vedere la biblioteca del Castello! Ci sono libri antichi che io non leggo perché penso di non capirli e di rovinarli a girare le pagine, ma ho libero accesso ai libri stampati dal 1850 e sono tanti e bellissimi. Sono quasi tutti in francese, bien sûr, ma io me la cavo già bene e quando non capisco chiedo alla Contessa che è una lettrice incallita.
Da un po’ di tempo sono stata promossa “cameriera personale di Madame”, ho una nuova divisa molto elegante e lavoro molto meno di prima. Non per vantarmi, ma sono proprio apprezzata e benvoluta: sono sempre più soddisfatta delle scelte fatte anni fa.
Vorrei vederti qualche volta, ma la distanza è tanta e i miei giorni liberi non basterebbero per raggiungerti, perciò mi accontento di ricevere qualche lettera. Non ti sprechi a scrivere, ma leggo con piacere le tue scarne notizie: sei sempre il mio fratellone timido ma tanto caro.
Se puoi mandami tue notizie. Ti abbraccio forte, Marta.

 

Simpatica questa giovane sorella di Augusto! Se penso che è andata in Francia a quindici anni la apprezzo ancora di più. Si è fatta una posizione usando impegno e intelligenza. È proprio in gamba e pensare che Augusto l’aveva definita “servetta”, quasi con disprezzo. Gli farò notare che sua sorella è seria e capace, non merita di essere trattata con sufficienza.

 

Settembre 1929
Che bella vacanza ho fatto quest’anno! Sono stati quattro giorni intensi e inaspettati.
Io ho dormito nella mia vecchia camera dove dormivamo in quattro sorelle; ora è rimasta solo Giulia che continua a stare a casa, cuce e dà una mano a Olimpia, la moglie di Bastiano, che ha già cominciato bene la vita matrimoniale: subito ha avuto due gemelli e un anno giusto dopo una  bambina che sembra una rosa.
Augusto è stato ospitato da Anna e Piero in una bella stanza appena rinfrescata con la calce: Anna sa sempre come accogliere un ospite, anche se non le capita spesso.
Ci siamo presentati un po’ timidamente, ma Augusto è entrato subito in confidenza con mio fratello e mio cognato, così io sono stata in cucina a dare una mano e tra donne abbiamo avuto il tempo di chiacchierare e di confidarci.
Io e lui abbiamo fatto brevi passeggiate nei dintorni delle case e abbiamo deciso che di ritorno a Torino ci organizzeremo per sposarci. Un pomeriggio eravamo in un bosco, si sentivano solo gli uccelli cantare e il ruscello mormorare; è stato logico baciarsi. Non eravamo mai stati così vicini e così emozionati. Non siamo più ragazzi, ma l’amore dà i brividi a qualsiasi età. Pensavo che queste fossero parole degne di un romanzo un po’ sdolcinato, ma ora ci credo davvero!
Tornando a casa mi sentivo diversa, avrei voluto dirlo agli altri, ma sarebbe stato stupido, non si parla di sentimenti neppure con una sorella carissima.
Però ho avuto l’impressione che mi si leggesse in faccia la felicità.
Appena tornati a Torino Augusto ha scritto a sua sorella Marta. Ha promesso che mi farà leggere la risposta.

 

Allemagne-en-Provence, ottobre 1929
Caro Augusto,
che emozione ho provato a prendere la busta con la scrittura ben nota!
Possibile che mio fratello avesse spedito una vera lettera e non la solita cartolina postale con “Io sto bene e tu? Saluti cari, Augusto”?
Mi sono sentita rimescolare il sangue: doveva esserci qualcosa di eccezionale da comunicarmi. Speravo che dicessi “vengo a trovarti” ma ho letto “ho conosciuto una signorina che mi piace molto e penso che presto la sposerò”.
Ho cominciato a ridere e a piangere, sono corsa dalla Contessa perché non potevo trattenere la mia gioia, dovevo dirlo a un’amica.
Ora sono più tranquilla e penso che questa Emilia deve essere proprio speciale per colpire così tanto uno come mio fratello.
Mi dici che Emilia ha una famiglia accogliente, tienila da conto, tu che sei stato sempre troppo solo: una famiglia, degli amici, una persona interessante con cui vivere sono cose importanti. Spero che mi manderete una foto del matrimonio.
La Contessa mi ha chiesto se non avevo pensato a qualche brutta notizia vedendo la tua lettera. No, per me era una tale novità, una tale gioia ricevere notizie da te che dovevano essere per forza cose belle!
Ti devo dire che qui tutto procede bene. I figli dei conti si vedono poco al castello, hanno le loro vite. I genitori ne soffrono un po’ e fanno qualche battuta sul fatto che qualcuno si presenta solo se è a corto di soldi. Succede in tante famiglie.
Il Conte è molto impegnato nella distilleria del profumo, spesso viaggia in altri stati per comprare macchinari moderni e per conoscere clienti. Vengono da noi dei visitatori interessati alle nuove tecniche. Abbiamo sempre lavoro con ospiti e amici che frequentano volentieri il castello. In realtà il mio impegno non è mai pesante, c’è il personale che fa il grosso, io ho un compito di accoglienza, di compagnia.
Bene, ti lascio ai tuoi impegni con un abbraccio e un saluto speciale per Emilia. Marta.

 

Torino, 15 gennaio 1930
Cara Marta,
non conosci la mia scrittura, ma hai già capito che Augusto non ha impiegato un minuto ad affidarmi l’incarico di tenere i rapporti con te, ora che sono tua cognata. È sempre pigro per mettersi a scrivere e si riduce a quattro banalità per evitare di essere coinvolto in discorsi complicati. Spero che lo stare con me e con i signori del condominio lo facciano aprire un po’, eppure a me è piaciuto forse proprio per questa timidezza!
Basta critiche, ora ti spiego come ci siamo organizzati, così riesci a immaginare la nostra vita quotidiana.
Intanto ti dico che da settembre, dopo che siamo tornati a Torino dalla vacanza a casa mia, abbiamo cominciato a vederci tutti i giorni per pranzo e poi tra le 17 e le 18, dopo la chiusura della Posta. Questi incontri sono serviti a chiarirci sui nostri sentimenti e a progettare il futuro insieme.
Per prima cosa abbiamo stabilito che io non smetterò di lavorare e non credere che da noi sia così facile prendere una decisione del genere: molte persone, e per primi i nostri governanti, pensano che una donna sposata debba starsene a badare ai figli, al marito, alla casa e non fantasticare di trovarsi un lavoro e magari anche guadagnare abbastanza da potersi mantenere.
Se tu vedessi che propaganda si fa sui giornali e nei cinegiornali sulla donna regina della casa, angelo del focolare e altre stupidaggini tra cui la migliore definizione di donna è “detentrice del sacro retaggio della stirpe”. E come vengono guardate con sospetto le giovani che pretendono di andare a scuola oltre la quinta elementare! E quelle che, dopo i ventitré, venticinque anni, non sono sposate vengono guardate con pietà, anche quando non sono né brutte né zoppe!
Io sono tra queste, però non mi sono sposata per sfuggire alle critiche: Augusto è una bella persona, ci siamo trovati d’accordo su tante idee e abbiamo visto che stare in compagnia dà soddisfazione e sicurezza.
La decisione di mantenere il lavoro ha coinvolto anche l’alloggio, perché io come portinaia ho un appartamentino gratuito nel palazzo. Augusto ha vissuto per anni in pensioni non sempre accoglienti, con regole su orari e turni stabilite da altri; ora non gli sembra vero di avere uno spazio per il rasoio e la crema da barba in un bagno che usiamo in due e non in sei!
Riguardo al cibo, poi, ha riscoperto dei gusti dimenticati; io non cucino raffinatezze francesi, ma le ancioe al verdo la bagna caoda, le patate salà con la salada e ‘l bonèt sono piatti che so fare bene, da lui graditi e che da anni non mangiava.
Nel palazzo mi hanno dato il permesso di mettere un armadio in una stanza attigua al mio alloggio, camera che viene usata pochissimo per riunioni di condominio. Abbiamo così potuto sistemare un po’ di libri e qualche ricordo che Augusto si è portato nei vari traslochi. Grazie a questa dépendence riusciamo a convivere in uno spazio non enorme e a leggere e scrivere liberamente.
Ogni tanto ti immagino in giro per il castello, penso che impiegherai ore per andare da una parte all’altra; per me la distanza fra la camera e la cucina è di cinque passi!
C’è ancora un vantaggio: la portineria è molto vicina alla Posta, Augusto non spende una lira per il viaggio. Capisci che con due stipendi ce la caviamo bene.
Carissima, mi viene così naturale scriverti di me e di tuo fratello, mi sembra che ci conosciamo da sempre! Io ho letto due lettere tue e proprio ho l’impressione di parlare con un’amica. Spero che la cosa non ti disturbi. Vorrei conoscerti di persona, sono sicura che potremmo andare d’accordo, chissà se avremo un’occasione di incontro.
Ho ricevuto con sorpresa la tua bella confezione color lilla: già la scatola è un capolavoro e il contenuto è prezioso, grazie infinite.
Ho ricevuto regali dalle mie signore e dalla mia famiglia, ma il più inaspettato è arrivato da un giovane nipote, Giovanni, che ha messo da parte i soldi rinunciando per mesi al cinema: mi ha regalato una radio a valvole, montata da lui stesso. È un ragazzo d’oro!
Come promesso, ti mando la foto del nostro matrimonio; l’abbiamo fatta in uno studio fotografico molto noto a Torino. So che sembriamo un po’ rigidi e impacciati, ma il fotografo si è raccomandato di non muoverci e non ridere e noi ci siamo trattenuti. Come vedi Augusto è sempre un bell’uomo, alto, dritto, con tutti i capelli neri; io sono di poco più piccola, sono magra di natura, ma non un bastone vestito. Tutti dicono che siamo una bella coppia, giudica tu.
La foto piccola invece è stata scattata da un amico a Superga, dove siamo andati a fare un giro domenica scorsa e lì potevamo ridere!
Non ero mai salita sulla cremagliera, una specie di tram che si arrampica su una scala dritta, senza curve, con una pendenza impressionante: in mezz’ora parti da Torino e arrivi sul colle di Superga senza fare la minima fatica. Sembra un miracolo. Di lassù la vista è magnifica: c’era la città ai miei piedi e più indietro tutte le montagne che la circondano: non ho parole per descrivere quello che ho provato.
Spero di non averti annoiata, se puoi mandaci presto tue notizie.
Ti saluta Augusto.
Un abbraccio da Emilia.

 

Aprile 1930
Fino a poco tempo fa vivevo da sola nel mio bell’alloggetto e non immaginavo che potesse succedere qualcosa capace di cambiarmi la vita. Adesso siamo in due a occupare gli spazi, a usare gli asciugamani e la biancheria, a mangiare tre pasti al giorno, perciò ho più lavoro, ma lo faccio volentieri. Augusto non si fa problemi a darmi una mano nel giardino a togliere l’erba e a interrare le nuove piantine, oppure a fare commissioni per i signori del palazzo, insomma ci siamo organizzati che ci rimane un po’ di tempo alla sera per ascoltare la radio e per leggere e scrivere. A volte stiamo a fare niente, mano nella mano ascoltiamo la musica o facciamo due passi di danza nel piccolo corridoio. È meraviglioso essere abbracciati da una persona amata.
Il sabato pomeriggio e la domenica usciamo a passeggio o andiamo al cinema.
Andiamo in centro con il tranvai e poi passeggiamo per ore: Augusto sa tante cose sui palazzi e sui personaggi che li hanno abitati e sulla storia di Torino e io imparo a vedere cose che non avevo mai nemmeno immaginato.
Adoro le strade così dritte ed eleganti, ad esempio non mi stanco mai di osservare via Po che è lunghissima, con i portici dai due lati e giù in fondo si vede la Gran Madre che si trova dall’altra parte del Po. Ogni volta mi emoziono ad affacciarmi da Piazza Castello verso il fiume.
Un altro posto che non mi stanco mai di percorrere è la Galleria Subalpina che sembra un salotto su cui si affacciano caffetterie, librerie e altri negozi meravigliosi. Molti dicono che Torino è una piccola Parigi. Chissà come sarà la capitale francese.
Augusto mi ha fatto scoprire una via strana di Torino: via Pietro Micca che tutti conoscono come la Diagonale perché è stata costruita non con gli angoli retti di tutte le vie della città, ma proprio in diagonale da Piazza Castello a Piazza Solferino. Non è per niente brutta con i suoi bei palazzi e i portici luminosi, però i Torinesi non la amano.
Conosco anche stradine così strette che ci passa a malapena un carretto, dove il sole non arriva mai e i muri sono umidi e scrostati. Sono posti pericolosi.
Brutta gente in verità ne gira anche nelle vie importanti: sempre più Torinesi cambiano strada quando vedono avanzare squadre di giovani vestiti di nero, che non si sa dove stiano andando, ma che osservano il mondo intorno con sguardi truci.
Con Augusto facciamo discorsi su cose che sentiamo alla radio e sulle notizie dei giornali, ma non esprimiamo in giro il nostro pensiero, bisogna essere prudenti.
Qualcuno sbraita: ”Era ora che venisse un uomo forte, uno che ci porterà a essere un paese all’onor del mondo!” E sognano l’Impero. Io penso sempre che questo vuol dire guerra e non mi piace. Ho paura per noi, ma soprattutto per i giovani.

 

Torino, settembre 1930
Caro Giovanni,
so che tu non partecipi ai raduni degli avanguardisti e che sai badare a te stesso, ma sono preoccupata per un fatto accaduto in strada alcuni giorni fa.
Ho incontrato quel giovane Uberto, quello che sta nelle case Damont. Era bardato da avanguardista, con il fez, la camicia nera e il moschetto a spalla. Io non volevo avvicinarmi perché non ero sicura che fosse lui e invece Uberto si è fatto avanti baldanzoso, con un sorrisetto ironico, dicendo: “Avete visto, madama Emilia, come mi sta bene la divisa? Lo sapete che sono già stato promosso due volte perché sono il più bravo nelle esercitazioni? Fra poco torno a casa e farò l’onore a vostra nipote Graziella di portarla a fare un giro con me.”
Quando gli ho chiesto se era sicuro che Graziella volesse uscire con lui e che comunque ci voleva il permesso del padre, visto che lei ha solo quattordici anni, lui mi ha riso in faccia, non mi ha degnata di risposta e se n’è andato impettito come un galletto.
Ti dico la verità: non mi è piaciuto per niente, è uno che si crede il padrone del mondo solo perché indossa una divisa.Avverti i tuoi genitori che sappiano regolarsi.
Saluti affettuosi a tutti. Zia Emilia.

 

Val Chisone, aprile 1931
Cara zia Emilia,
avevi ragione a temere qualche guaio da Uberto.
È molto autoritario e convincente nell’imporre il suo volere. Si è incaponito su mia sorella e viene a fare piazzate a papà e mamma che non le danno il permesso di uscire perché è troppo giovane.
Graziella piange e si dispera, a me ha confessato che si sente attratta da quel bel giovane che usa con lei parole gentili.
Uberto è un gran furbo, si sta facendo una posizione nel Partito Fascista e questo gli dà forza. Sa ungere le ruote giuste. Papà usa una frase piemontese molto più forte che parla di leccare una parte del corpo alle persone che gli faranno far carriera. Capisci che in casa non lo apprezzano molto.
Io ho raccomandato a mia sorella di avere pazienza, di aspettare di essere più grande, di pensarci bene perché mettersi con un prepotente non c’è da guadagnarci niente.
Non so se Graziella mi ascolterà; restiamo preoccupati. Spero che voi a casa siete più tranquilli!
Saluti affettuosi a te e a zio Augusto. Giovanni.

 

Settembre 1932
Anche quest’anno abbiamo trascorso quattro belle giornate in alte val Chisone.
Veramente in casa di Anna e Piero si sente un po’ di tensione per la faccenda di Graziella, anche se Uberto per il momento ha mollato l’assedio. Infatti è partito per Milano per seguire la sua “luminosa carriera”. Ha promesso che ritornerà per sposare la sua giovane fidanzata, a cui offrirà uno “splendente avvenire”. Graziella è abbagliata da tutta questa luce, spero che non si fulmini nessuna lampadina! Anna si augura che il ragazzo torni più ragionevole.
Per noi è sempre un piacere stare con i nipoti; ce ne sono di tutte le età e sono molto simpatici.
Ho parlato con mia sorella, le ho chiesto se fosse disposta a darci una delle bambine piccole: potremmo allevarla noi e mandarla a scuola a Torino. Noi siamo troppo vecchi per metter su famiglia, non pensiamo che avremo figli nostri, perciò ci piacerebbe avere con noi una delle nipotine.Anna e Piero ci hanno detto di no, vogliono crescere i loro figli senza allontanarne nessuno.
Li capisco e li apprezzo per la coerenza, anche se mi ero illusa che avrebbero acconsentito, per il bene che ci vogliamo.
Augusto ha visto che son rimasta male e ha proposto di invitare a turno qualche nipote a Torino per due o tre giorni, per poterli accompagnare in giro a visitare la città. Mia sorella e mio cognato hanno dato il loro consenso e i bambini hanno gridato la loro gioia: per loro sarà una piccola vacanza. Sono contenta di questa novità. Dovrò anche andare su e giù per accompagnarli. Emilia, ti annoiavi? Avevi poco lavoro?
Adesso sei servita!

 

Gennaio 1933
Non ho parole: Graziella è scappata di casa dopo aver ricevuto una lettera da Milano.
Penso a mia sorella e alla sua preoccupazione.

 

Dicembre 1934
Anche quest’anno è passato senza ricevere notizie di Graziella. A suo tempo Piero aveva fatto denuncia di scomparsa presso i Carabinieri, ma senza risultati. Lui è convinto che nessuno abbia portato avanti indagini serie. Tra appartenenti al Partito ci si protegge: Uberto è diventato famoso per la capacità di “convincimento” dimostrata con quelli che non la pensano come lui, quindi gode di protezioni in alto loco. Nessuno andrà a contestargli il diritto di stare con una minorenne.

 

Allemagne-en-Provence, aprile 1935
Cara Emilia,
ti avevo accennato che la mia buona signora era tormentata da una malattia sconosciuta. Nessun dottore è riuscito a curarla, hanno anche provato la radioterapia provocandole delle bruciature tremende. Purtroppo è peggiorata velocemente: il suo corpo era come divorato dall’interno, ha sofferto tanto! L’hanno lasciata morire, eppure erano stati chiamati i migliori specialisti.
Io l’ho assistita fino alla fine, stando con lei giorno e notte. Le volevo veramente bene e lei mi ricambiava con l’affetto e la stima. Anche negli ultimi giorni di vita la mia signora si preoccupava del Conte, del castello e del personale e si è fatta promettere da me di non abbandonare tutte le sue cose più care.
La Contessa manca molto a tutti e certo non me ne andrò a cercare un altro posto di lavoro ora che qui c’è tanto da impegnarsi. Tutti si rivolgono a me per sapere cosa conviene fare nelle varie circostanze.
Il Conte ha poca voglia di parlare e di prendere decisioni, anche perché i figli gli stanno dando dei grossi problemi: pretendono di essere liquidati dell’eredità della madre e vogliono l’argent, non vogliono quote della distilleria dei profumi o i campi di lavanda: sono avidi di denaro sonante. Alla fine i figli hanno sbattuto la porta e sono tornati alle loro case.
Queste grane hanno fatto molto male al Conte che già era triste e sconvolto dalla morte della moglie. Anche il personale è scosso da tanta insensibilità.
Non so come andranno adesso le cose, spero solo di essere utile per riportare un po’ di ordine e serenità nel castello.
Saluti affettuosi a te e Augusto. Marta.

 

Ottobre 1935
Giovanni è partito militare; spero che non lo mandino in Africa a combattere contro gli Etiopi. Nessuno di noi ci tiene a conquistare un Impero!
Di Graziella non si sa niente. Anna e Piero si dedicano agli altri figli, ma nei loro occhi c’è sempre una grande tristezza.

 

Torino, 15 aprile 1936
Cari Anna e Piero,
vi dico subito la novità piacevole, poi parliamo del resto: ieri sono riapparsi Graziella e Uberto. Sono venuti da me in portineria, per capire se potevano presentarsi da voi.
Io ho spiegato loro che non avevano tenuto un comportamento corretto nei confronti della famiglia, che voi avevate sofferto per la ribellione e il silenzio prolungato, che non sapevo come li avreste accolti.
Le mie obiezioni non hanno sortito alcun effetto: ha quasi sempre parlato lui, Graziella si è limitata ad approvare. In sostanza, ora che lei è maggiorenne, si può sposare senza il permesso dei genitori, però ci terrebbe a fare le cose per bene, con la famiglia riunita, “dimentichiamo gli screzi passati, iniziamo una nuova vita.”
Il tono era gentile, non più prepotente come quello usato anni fa, ma non ho notato alcun segno di pentimento o di disponibilità a chiedere perdono: Uberto è convinto di non poter sbagliare, quindi non deve pentirsi di niente.
Poi lui è uscito un momento per una commissione che doveva fare nei dintorni e Graziella mi ha confidato che Uberto è meraviglioso, che ama solo lei, anche se ha avuto molte avventure, ma erano proprio solo scappatelle, come sono permesse a tutti gli uomini belli e di successo; che l’ami è provato dal fatto che le ha confessato questi peccatucci e che è l’unica che vuole sposare.
Non avevo tempo per esporle la mia visione sui diritti maschili e femminili; non la vedo come lei, ma lasciamo stare.
Mi ha dato l’impressione di essere rimasta una bambina che ripete ciò che le viene detto senza comprenderne il valore.
Graziella è buona, fragile, ingenua; lui la manipola come una marionetta.
Anna e Piero, discutete tra di voi cosa volete fare, non aspettatevi troppo da questi due, Uberto è più maturo, non farà di sicuro le piazzate di un tempo, però è sempre un essere superiore… Peraltro ha un buon impiego, penso che possa mantenere la famiglia in modo dignitoso.
Fatemi sapere se li volete accogliere o se preferite non aver più niente a che fare con loro. Certo, Graziella è sempre vostra figlia anche se vi ha fatto star male.
Torneranno da me per la risposta.
Un saluto affettuoso da Emilia. 

 

Allemagne-en-Provence, luglio 1936
Cara Emilia,
qui le cose sono molto cambiate: il Conte ha venduto e svenduto molti dei suoi possedimenti per liquidare i figli; le Chateau aux parfum e poco altro è rimasto di sua proprietà. Dopo un altro litigio furioso quegli ingrati hanno detto che torneranno solo alla sua morte per prendere ciò che gli spetta di diritto. Il padre ha ribattuto che farà in modo che a loro resti giusto ciò che è obbligato a lasciare loro. Figurati le grida e le porte sbattute.
Spero che per un po’ non si facciano vedere perché il cuore del Conte potrebbe non reggere. Nessuno di noi si aspettava tante male parole rivolte dai figli a un padre già sofferente. Il dottore si è raccomandato cibo sostanzioso e clima sereno e la servitù è tutta d’accordo nel realizzare questo programma: vogliamo aiutarlo a stare meglio.
Scusa Emilia se ogni volta ti racconto solo brutte cose, ma devi capire che per me questa è un po’ la mia famiglia; sono vent’anni che vivo con queste persone e mi sento contenta o triste quando loro sono contenti o tristi. È così per la maggior parte del personale di servizio. Non so spiegarti meglio, ma tu mi capirai.
Spero che ritroveremo un po’ di serenità, la stessa che traspare dalle tue lettere.
Vi abbraccio. Marta

 

Allemagne-en-Provence, marzo 1937
Cara Emilia,
le cose vanno meglio: il Conte sta dimenticando le grane coi figli e si sta di nuovo interessando dei dipendenti e dei lavori che si svolgono nel castello. Sono contenta che riprenda amore per la vita.
Io faccio le solite cose: leggo, cucio, organizzo il lavoro della servitù e mi occupo degli abitanti del nostro paesino; vorrei che avessero un dottore o almeno una levatrice a portata di mano, che non dovessero correre con la bicicletta fino alla cittadina di Manosque quando c’è un malato o sta per nascere un bimbo.
Anche la Contessa pensava che Manosque è lontana e diceva “prima che il dottore arrivi possono succedere tanti guai, perciò dobbiamo trovare il modo di far venire un dottore in paese” Ho già parlato con persone importanti e forse riuscirò a organizzare un servizio medico utile non solo al castello, ma anche agli abitanti delle case sparse nei dintorni.
Spero che voi siate in buona salute. Scrivimi quando puoi. Affettuosi saluti a te e ad Augusto. Marta

 

Allemagne-en-Provence, marzo 1939

Cara Emilia,
è passato del tempo dall’ultima lettera che ti ho scritto, però ho lavorato molto, ho organizzato il lavoro per altri, realizzato una parte dei progetti per l’ambulatorio, ma soprattutto è successo un fatto inaspettato che ti rivelo adesso, a cose compiute.
Il Conte mi ha chiesto di sposarlo. Mi ha subito detto che mi stimava molto, che stavo conducendo la casa come una vera padrona, che dopo le delusioni avute dai figli ha pensato a lungo al modo di far sì che alla sua morte quegli sconsiderati non prendano altro che una parte dell’eredità. Si è consultato con un avvocato che gli ha suggerito un nuovo matrimonio. E lui ha pensato a me!
Capisco che questo possa essere interpretato come un matrimonio d’interesse; so che sarebbe inutile cercare di ammantarlo di romanticismo, stupidaggini come un amore tardivo o la realizzazione di un sogno covato per vent’anni.
Per favore, Emilia, non giudicarmi cinica e interessata. Il conte è sempre stato corretto nei miei riguardi e anche ora non mi ha imposto niente: mi ha spiegato la situazione e mi ha chiesto di aiutarlo; come in tante altre occasioni ho accettato di fare la mia parte. Temo che mi costerà cara questa scelta: puoi ben pensare alle gelosie e alla maldicenza che si sono subito scatenate, ma saprò reagire.
Con il Conte ci stimiamo a vicenda, io sono contenta che abbia pensato a me per trovare una soluzione ai problemi che lo assillano. La mia vita non cambierà di molto.
Spero che la notizia non vi infastidisca, temo il giudizio di Augusto, ma vi garantisco che sono sempre la stessa Marta che vi vuole bene e vi pensa spesso.
Un abbraccio. Marta

 

Torino, 15 aprile 1937
Cara Marta,
non avrei voluto lasciar passare tanto tempo per risponderti, ma dovevo dare il tempo ad Augusto di pensare e valutare la tua scelta. Ha rimuginato a lungo sulla notizia del tuo matrimonio, non voleva parlarne finchè non era sicuro di aver ragionato bene sul significato della tua lettera.
Poi mi ha confidato che non era rattristato dalle tue parole: non dubita che il Conte sia una persona onesta, che non sta cercando di “infilarsi nel letto di una servetta giovane e sprovveduta” ma sta pensando a una adeguata punizione per l’ingordigia dei suoi figli e a garantirsi una compagnia per la vecchiaia. Altro non ha voluto dirmi, ma non è triste o seccato.
Per quel che mi riguarda io so che tu stai facendo un atto quasi di dovere nei confronti di una persona stimata.
Spero che la vita vi dia del tempo per vivere giorni sereni. Non dubito che continuerai a portare avanti gli impegni che ti sei assunta.
Non stare ad ascoltare le cattiverie della gente: tu sai di essere nel giusto, hai fatto sempre il tuo dovere e anche questa volta hai risposto di sì ad una richiesta motivata del tuo datore di lavoro.
Non è necessario raccomandarti di mantenere il tuo modo di fare con la gente, sei sempre stata attenta e disponibile all’aiuto a chi ne ha bisogno, non cambierai certo adesso.
Per favore, continuiamo a tenerci in contatto.
Con affetto Emilia e Augusto.

 

Torino dicembre 1942
Da Manosque è arrivato un telegramma che annuncia la morte del Conte.
Mi dispiace per Marta: ultimamente ha scritto poco perché era troppo presa dalla malattia del marito. Spero che si riprenda presto e possa vivere anni sereni nel suo bel paese profumato.
Non possiamo neanche pensare di andare a trovarla, gli italiani non sono ben accetti in Francia in questo momento. I francesi giustamente ci accusano di averli aggrediti quando erano già allo stremo grazie ai tedeschi che li avevano invasi da mesi. È proprio quel che abbiamo fatto, ma non conviene dirlo in giro. Siamo di nuovo in un gran pasticcio: la guerra sta dilagando ovunque, anche Giovanni che aveva già finito la ferma è stato richiamato e dal fronte riceviamo poche notizie.
La radio trasmette canzoni allegre e parla di avanzate incontenibili e di strepitose vittorie, sembra che tutto vada a meraviglia, la guerra con l’Albania è una passeggiata; ma Giovanni, quando riesce a mandare una cartolina postale mezza annerita dalla censura, chiede calze di lana e roba da mangiare. Temo che non stia così bene come vogliono farci credere.

 

Torino, giugno 1946

È passato un anno dalla fine della guerra e intorno a noi fervono i lavori per tornare a vivere nella normalità.
I giorni della liberazione sono stati bellissimi, pazzi ed entusiasmanti, tutti cantavano, ballavano, si abbracciavano per le strade, ma presto siamo ritornati con i piedi per terra e ci siamo guardati intorno.
La guerra ci aveva ridotti alla fame, Torino era stata bombardata quasi ogni notte per mesi e mesi, nei negozi non c’era più niente da comprare, molte famiglie erano sfollate nei paesini per sfuggire ai bombardamenti e per poter comprare un po’ di cibo dai contadini.
I tedeschi avevano bruciato interi paesi e ucciso centinaia di persone inermi per impedire ai partigiani di trovare aiuti e ripari sulle colline.
Ancora adesso si vedono persone magre e malate che hanno attraversato a piedi mezza Europa per tornare a casa. Provengono dai campi di prigionia dove i tedeschi li hanno rinchiusi e costretti a lavorare come schiavi dopo l’8 settembre ’43.
Sembra che ci fossero anche campi destinati agli ebrei e di lì quasi nessuno è tornato. Si dice che siano stati uccisi tutti.
Si sente poco parlare di queste crudeltà, forse non sono neanche vere.
Giovanni è stato prigioniero a Mauthausen per quasi sedici mesi, lavorava duro e soffriva la fame, ma è riuscito a tornare.

Uberto invece non è mai andato in guerra, è stato fortunato.

Ora forse possiamo cominciare a ricostruire il paese e non parlo solo delle case distrutte!

Si sta scrivendo una legge per stabilire regole giuste per tutti gli italiani, dicono che ci sarà scritto che siamo tutti uguali, uomini e donne, di qualsiasi razza e religione e opinione politica. Per prima cosa hanno dato il “suffragio universale” cioè il voto a tutti, ricchi e poveri, e anche alle donne! Forse cambieranno davvero le nostre esistenze. Sono contenta di vivere in questi tempi, ho tanta speranza nel futuro, che le nostre esperienze dolorose ci aiutino a costruire un mondo più giusto, senza più fame e guerre.

 

Torino, maggio 1950

Da anni Augusto si riproponeva di andare in Francia a trovare sua sorella. Però c’erano sempre impedimenti vari: un po’ era rallentato dalla difficoltà di arrivare in Provenza (il treno non raggiunge tutte le cittadine della regione), un po’ era intimidito dalla figura del conte-cognato. Poi finalmente ha deciso che questa volta poteva davvero andare: entro l’anno andrà in pensione e deve ancora recuperare molti giorni di ferie, così ha pensato di lanciarsi da solo in questa visita tanto attesa. Da solo, perché io non posso muovermi da Torino.

Augusto è stato via dieci giorni ed è tornato entusiasta dei bei paesaggi visti e di come ha trovato bene Marta, non solo in salute ma anche soddisfatta della vita, circondata da persone che la apprezzano.

Lui e Marta sono andati in giro con la macchina guidata dallo chauffeur, serviti e riveriti.

Hanno visitato il Palazzo dei Papi ad Avignone e visto i resti romani a Nimes e a Pont du Gard. Tutto l’ha appassionato. Ma soprattutto parla con affetto e con entusiasmo di sua sorella, che non aveva visto da trentacinque anni.

Ha portato a casa tante foto di Marta, del Chateau e dei dintorni e non si stanca di parlarmene.

 

 

 

 

Torino dicembre 1950.

Mi rendo conto che gli anni sono scivolati via senza troppe scosse e siamo arrivati all’età della pensione! Augusto ha maturato quarant’anni di anzianità, io meno, però abbiamo deciso di ritirarci a vivere in un alloggio nel centro di Perosa Argentina. Molti dei nostri nipoti vivono in Val Chisone, perciò abbiamo pensato che andare ad abitare vicino a loro sarebbe stata la scelta migliore.

Abbiamo anche deciso di acquistare una Fiat 500C per poterci muovere liberamente.

Sono felice di avvicinarmi alla famiglia, non mi pesa lasciare la grande città, che è sempre più caotica, rumorosa e puzzolente.

Perderò l’amicizia di molte delle mie signore e questo sarà un dolore grande, ma non si può avere tutto.

 

 

Perosa Argentina, maggio 1952.

Qui godiamo della compagnia di Giovanni e Carla che sono una coppia ben assortita, sono simpatici e disponibili. Ogni tanto prendo in giro mio nipote, ricordandogli le parole da lui scritte tanti anni fa: “Non mi parlare di femmine, che sono tutte stupide.” Carla non è affatto stupida ed è anche una bella donna.

Lui ride e ammette: “Ero un ragazzino, non sapevo niente!”

Anche Uberto e Graziella abitano vicino e vengono spesso a trovarci.

Hanno un bambino, è buono e bello, ma  lo tengono troppo lontano dai compagni, non lo fanno giocare in cortile perché può prendersi qualche malattia dagli altri bambini. Graziella non esprime mai un parere su niente e perciò non ha il coraggio di difendere suo figlio dalle imposizioni ingiuste del padre.

Uberto è più “posato”, ha cambiato i suoi modi strafottenti, cerca di rendersi utile con le pratiche in municipio o in banca.

Da anni abbiamo cointestato il conto corrente con Giovanni, perché ci fidiamo di lui come di noi stessi. Ho l’impressione che Uberto si metta così in vista perché vorrebbe essere lui il contitolare del conto, ma per ora non se ne parla: noi siamo più sicuri con Giovanni.

 

Perosa Argentina marzo 1956

Nei giorni scorsi abbiamo ricevuto la triste notizia che Marta è morta.

Non ci scrivevamo regolarmente, non ci eravamo mai conosciute di persona, eppure ci volevamo bene.

Non aveva mai scritto che avesse problemi di salute, non so nemmeno se è stata malata o se è morta all’improvviso.

La notizia ci è arrivata da un notaio di Manosque che convoca Augusto per la lettura del testamento il giorno 12 giugno.

Augusto non si sente di andare da solo e Uberto si è offerto di fargli da scorta vantando la sua conoscenza del francese e la sua capacità di guidare l’auto. Sono contenta di questa decisione: mio marito non è più giovane e io voglio che si riguardi, so che si stancherebbe troppo a guidare per ore, Uberto è la persona giusta per accompagnarlo.

 

Perosa Argentina 30 luglio 1956

Augusto e Uberto sono tornati dopo più di quindici giorni di permanenza in Francia.

C’erano molte cose da sistemare: l’eredità consisteva nel Chateau-aux parfum, in terreni, in azioni e in denaro. Hanno dovuto sbrigare molte pratiche, consultare avvocati e agenzie immobiliari, produrre certificati e dichiarazioni e non so che altro.

Augusto mi ha raccontato della bellezza del castello, dei mobili preziosi, dei libri antichi, del personale smarrito, ormai senza guida e senza lavoro.

Lui è tornato rattristato e preoccupato: ha dovuto prendere decisioni che sconvolgeranno la vita di persone sconosciute, ma fedeli ai Conti Sorel e poi a Marta che da cameriera era diventata padrona, ma era rimasta la persona semplice e comprensiva che era sempre stata. Augusto è commosso dall’affetto e dalla stima che ha trovato ad Allemagne-en-Provence nei confronti di Marta. Ora non scherza più con la parola “servetta” con cui si divertiva a definirla quando era più giovane.

Uberto si è comportato bene, ha saputo muoversi in circostanze inusuali e difficili. Grazie al suo intervento deciso i figli del Conte hanno incassato la loro parte e si sono ritirati in buon ordine, consapevoli che non c’erano modi di impugnare il testamento che era stato scritto tanto tempo fa da un notaio, con testimoni inattaccabili, in piena coscienza e libertà da parte del Conte.

Mi sembra strano parlare del conte senza nominarlo mai per nome. È stato mio cognato per anni, ma per noi è rimasto sempre il Conte. Ora so che si chiamava Jean-Philippe.

 

Uberto deve aver turlupinato Augusto che si è convinto a metterlo

come contitolare del conto, ora che la cifra depositata è consistente e occorrono tempo e capacità per gestire il capitale.

A me non piace l’idea, perché lo considero sempre infido. È passato tanto tempo e Uberto è molto cambiato, però nei suoi occhi ogni tanto vedo una scintilla che mi ricorda il gradasso di allora e i suoi bei modi gentili non sempre mi sembrano sinceri.

Nei prossimi giorni andrò da Giovanni per sentire come la pensa e anche per non dargli un dispiacere, che se gli togliamo la firma non è per scarsa fiducia.

 

Val Chisone, 7 agosto 1956

Cara zia Emilia,

ho saputo da Carla che sei venuta a cercarmi: ero via per lavoro, come al solito. Mia moglie mi ha detto anche il perché mi cercavi e ora vorrei rassicurarti: se tu e lo zio scegliete di mettere Uberto come cointestatario del conto io non ne sarò offeso.

Tu sai che io sono più capace a risolvere problemi pratici, a capire cosa non funziona in un motore o in un impianto elettrico, mentre le questioni finanziarie non fanno per me. Io non vado mai in banca a controllare come vanno gli investimenti o per farmi consigliare nuovi impieghi redditizi del capitale.

Uberto è di sicuro più adatto al compito.

Tu sai che non lo apprezzo come uomo, ma dal punto di vista del lavoro ha fatto carriera, dimostra capacità organizzative, è apprezzato dai superiori, ha tempo e conoscenze, farà sicuramente al caso vostro.

Io comunque non mi metterei mai contro di lui, ne ho paura.

So che queste non sono cose che si possono scrivere, ma con te ho una confidenza completa e sono sicuro che le mie parole non usciranno da questa lettera, che poi brucerai.

Mi ricordo di tanti vecchi episodi che mi hanno reso Uberto un temibile avversario, perciò non mi sento di mettermi contro per nessun motivo.

Io lo odio per i comportamenti tenuti tanto tempo fa con i miei genitori e per come manipola Graziella che è rimasta sempre fragile, una bambina incapace di prendere da sola una qualsiasi decisione, anche sulla scelta di una matita da comprare al figlio.

Non a caso  una sera di tanti anni fa all’osteria, dopo qualche bicchiere di vino Uberto disse:

”Sposo la Graziella perché posso farne quello che voglio”. Il suo scopo è stato raggiunto.

Scusa lo sfogo, ma ti ripeto che non mi dispiace  se mi sostituite e poi il nostro bel rapporto di amicizia, cara zia, non sarà rovinato dalle questioni finanziarie; noi siamo sempre felici di vedere te e lo zio a casa nostra e lo stesso andiamo volentieri da voi a Perosa.

Arrivederci a presto. Con il solito affetto   Giovanni

 

 

Epilogo

Lettera di Silvia a Olga, in data 30 gennaio 2021.

 

Cara Olga,

hai raccontato fino a un certo punto la storia della mia prozia Emilia, ma ti manca il finale.

I miei prozii Augusto ed Emilia sono morti nel ’64-’65 senza testamento, tanto era inteso che a ciascuno dei nipoti spettava una parte di eredità: l’avevano detto a voce che il loro conto andava diviso in parti uguali. Tra galantuomini non occorre altro che la parola.

Uberto, come contitolare del Conto, comunicò che ciascuno aveva diritto a quattro milioni e cinquecento mila lire.

Tutti si ritennero soddisfatti: quella era una cifra con cui si poteva fare qualche spesa importante.

Molti anni dopo chiesi a mio padre:

“Qual era il valore totale del Conto Corrente? Chissà quanto avevano ricavato gli zii dalla vendita del castello e delle terre, e poi avevano messo da parte dei bei soldi lavorando: dovevano avere un bel gruzzolo.”

“In tanti anni che ho avuto la firma sul conto io non ho mai chiesto che cosa fosse depositato - confessò mio padre con un sorriso serafico – Uberto poi non ci ha comunicato altro che la cifra spettante a ciascuno.”

Io ero giovane e mi guardavo intorno, vedevo che cosa possedeva Uberto e che cosa possedevano tutti gli altri, così volli insistere.

“Papà, non hai mai pensato che Uberto vi avesse fregato con i suoi modi gentili e protettivi?”

“Può darsi, ma io sono contento della mia vita e orgoglioso della mia famiglia e del mio lavoro.”

“Però sarebbe stato bello se il castello non fosse stato venduto, noi potevamo abitarne una parte!”

“Chi avrebbe aggiustato tutti gli impianti televisivi della valle, se non ci fossi stato io?”

Capii che non l’avrei mai smosso dalla sua calma olimpica.

Io e mio fratello scherziamo ancora adesso sul castello e ci chiediamo tutt’ora se i calcoli di Uberto fossero giusti.

A presto.  Silvia

 

 

 

 

Autore: Olga Pons
Data: 22 feb 2021