NATALE AL CASTELLO
Ida si guardò intorno per capire se, a svegliarla nel cuore della notte, fosse stato il sommesso russare di suo fratello, che respirava male a causa delle adenoidi, o il verso di qualche animale notturno proveniente dal parco.
Elio dormiva tranquillo, quindi andò alla finestra e l’aprì. La investì una folata di vento gelido, misto a fiocchi di neve, facendola tremare di freddo e di gioia. I fiocchi grandi come batuffoli di cotone avevano già ricoperto i viali del parco e si posavano sui pini e su altri alberi secolari.
Era arrivata, finalmente! L’indomani avrebbero inaugurato il nuovo slittino, che il babbo aveva costruito per loro. Si trattenne dallo svegliare i fratelli, che avrebbero fatto troppo chiasso, e ritornò a letto.
Tardò a riprendere sonno, e quando finalmente la raggiunse, sognò di scivolare lungo le curve innevate del viale principale. Ma improvvisamente, lo slittino si rompeva in mille pezzi, mentre lei continuava a scivolare su un terreno duro e ghiacciato, senza riuscire a fermarsi.
Il mattino dopo, nella calda cucina della casa colonica in cui abitavano, la mamma preparava la colazione per i figli, mentre il babbo era già da tempo al lavoro, nelle scuderie del castello.
Giuseppe … era un toscano di carattere allegro e un gran lavoratore: da giovane aveva ottenuto un impiego nelle scuderie di San Rossore, la tenuta reale alle porte di Pisa. Amava i cavalli e da questi era ricambiato. Nelle stalle calde del loro fiato, cambiava la paglia nei recinti, strigliava gli animali, dava loro cibo e acqua e controllava che il loro manto fosse perfetto. Ripuliva e ingrassava i finimenti e, quando il capo stalliere glielo permetteva, faceva esercitare i cavalli alla longia, o faceva brevi cavalcate per tenere allenati gli animali.
Quando si era prospettato il suo trasferimento dalla tenuta di San Rossore al Castello della Mandria, a Venaria, era rimasto interdetto, perché era nato in Toscana e non si era mai allontanato dalla sua terra. Qui aveva conosciuto Amelia, giovane commessa nella bottega di un pizzicagnolo, e dopo un breve corteggiamento si erano sposati.
Amelia adorava la casetta che aveva abitato da sposa a San Rossore, il parco di pini marittimi, gli animali che popolavano la tenuta; amava particolarmente la spiaggia del Gombo, tra dune, arbusti battuti dai venti, pini contorti dalle intemperie, abitati da uccelli di ogni specie. Qui faceva lunghe nuotate solitarie, e sperava di rimanere in quei luoghi per sempre.
Il trasferimento si era reso necessario per esigenze della Mandria, e aveva avuto un buon riscontro economico, ma Amelia sembrava non ambientarsi nel nuovo ambiente. D’inverno si lamentava del freddo, della nebbia che spesso ammantava il parco, d’estate del caldo afoso e del divieto di bagnarsi nel lago grande, interdetto perché zona venatoria protetta.
Non aveva legato con gli altri membri della servitù: cuoche e guardarobiere, a cui si era aggiunta nei primi tempi del trasferimento. Questi la giudicavano superba e un po’ strana.
Alla Mandria erano nati i suoi figli: Ida, Elio e Pietro. Il più piccolo, cagionevole di salute, aveva contribuito al suo malessere e all’ansia che l’attanagliava.
A differenza della madre, i bambini si erano ben integrati nell’ambiente della Mandria: i loro amici erano i figli del personale del castello, o dei contadini addetti alle cascine di casa Savoia. Gli adulti stimavano Giuseppe, sia come lavoratore che come padre attento e affettuoso.
Benvoluta da tutti, Ida aveva libero accesso alla grande cucina, dove poteva ammirare i rami lucenti che brillavano alle pareti, bearsi dei profumi dei cibi, e visitare la stanza del ghiaccio che, nelle cantine del castello, teneva al fresco le vettovaglie.
Pina, la capo cuoca, si era affezionata a lei, e talvolta la chiamava per “insegnarle il mestiere” dandole piccole incombenze, come sgranare i piselli o “ripulire” i cucchiai con cui aveva preparato i dolci.
Quando i reali non erano al castello, cosa frequente perché preferivano altre residenze, la donna la portava a visitare le ampie sale dorate di stucchi, dalle pareti ricoperte di pitture fantastiche. A Ida piacevano soprattutto le camere delle principesse, che erano ormai adulte, a parte Maria Francesca, “la piccola di casa”. Ammirava estasiata i loro letti a baldacchino e gli armadi pieni di vestiti.
I bambini andavano a scuola a Venaria e frequentavano tutti insieme una pluriclasse. Ida era in seconda elementare, Elio in prima, e Pietro, di quattro anni, ancora all’asilo.
Per raggiungere il paese, erano abituati a percorrere strade sterrate e scorciatoie, e in quel primo giorno di neve non vedevano l’ora di provare lo slittino.
Il padre, venuto a salutarli, raccomandò loro di usarlo solo lontano dal castello: proprio quel pomeriggio, infatti, sarebbe arrivato il re con la consorte e i figli, per trascorrere il Natale.
Vittorio Emanuele III veniva di rado alla Mandria: preferiva di gran lunga passare lunghi periodi a San Rossore e, quando doveva restare a Torino, oltre ad abitare il palazzo di città, si recava spesso a Racconigi.
Non era un fanatico della caccia come i suoi predecessori, anzi, si diceva che provasse ribrezzo per i tanti animali a cui i suoi avi avevano tolto la vita, ed ora, impagliati, stavano esposti nei vari saloni.
Piccolo di statura e rachitico, seguiva come un cane fedele la consorte Elena del Montenegro, alta, slanciata e sportiva, che al contrario di lui amava cavalcare ed era una buona amazzone.
L’intero castello, quell’anno prescelto per trascorrere le festività, fremeva da alcuni giorni nei preparativi. La novità era che non si sarebbe festeggiato solo il Natale, ma anche il fidanzamento della primogenita Jolanda che, a primavera, sarebbe convolata a nozze con il conte Giorgio Calvi di Bergolo, un ufficiale di Cavalleria di stanza a Pinerolo. Si era creato un grande alone di romanticismo intorno a quelle nozze, fortemente ostacolate dalla nonna, la regina Margherita, che aveva tramato per un matrimonio reale addirittura con Edoardo VIII d’Inghilterra, ma la ragazza non aveva ceduto che al “cuore”, come scrivevano i giornali. Si sarebbe trasferita a Pinerolo con il marito in una bella villa sulla collina, senza curarsi di regni e questioni di stato.
Ormai quasi tutto era pronto per accogliere i sovrani. Nelle cucine si preparava il banchetto di benvenuto, e Pina aveva avuto l’arduo compito di studiare pietanze adatte allo stomaco delicato del re, che nello stesso tempo potessero assecondare la fama di buona forchetta della moglie.
Ida aveva assistito dalla finestra all’addobbo dell’albero, nel salone principale: un abete enorme, carico di decorazioni natalizie e di una miriade di piccole candele bianche pronte ad illuminarlo.
Sapeva che nella stanza dei giochi, dedicata ai rampolli reali, ci sarebbe stato un dono anche per i figli dei dipendenti. La Regina tutti gli anni cercava di esaudire anche i loro desideri.
Un poco invidiava quella grande atmosfera di festa, ben diversa da quella di casa sua.
Mentre andava a scuola con i fratellini, delusa dall’avvertimento del babbo, Ida pensava che lui, almeno, per quanto era possibile, cercava di accontentarli, di tenerli di buon umore.
La madre, al contrario, non era mai stata un tipo allegro e in genere non ascoltava i loro pensieri, sembrava non interessarsi ai loro piccoli problemi.
In quei giorni, poi, accudiva alle faccende domestiche con estrema fatica; era pallida, sciupata, ogni tanto una tosse stizzosa le troncava il respiro.
In modo confuso, Ida collegava quei cambiamenti a una cosa successa alcune settimane prima.
Una sera, il padre si era trattenuto alle stalle per la nascita di una puledra; la mamma li aveva mandati a letto, poi era uscita, dicendo che gli sarebbe andata incontro. Dopo un po’ era stato il papà a svegliarla: Amelia non era in casa e lui era uscito a cercarla.
Pare che ci fosse una nebbia fitta quella notte: l’aveva trovata piena di freddo vicino al lago, dove si era persa. Poi era stata a letto per qualche giorno, si alzava solo per cucinare qualcosa.
Adesso le era passato, così diceva, ma non sembrava quella di prima.
Nel primo pomeriggio arrivò la famiglia reale a bordo di due Fiat Torpedo, fra ali di domestici schierati all’ingresso, mentre i contadini avevano seguito il corteo lungo la strada.
I ragazzi, però, si allontanarono presto, per giocare con la neve e cercare discese per lo slittino, sotto lo sguardo invidioso della principessina Maria Francesca che, vedendoli dalla finestra della sua camera, li avrebbe raggiunti volentieri.
Stanchi e sudati, i tre fratelli tornarono a casa al tramonto, dove trovarono il babbo seriamente preoccupato per la febbre alta che aveva colpito la moglie.
Il pomeriggio era cupo, grossi nuvoloni si stavano avvicinando e faceva molto freddo nel piccolo cimitero coperto di neve. Il becchino aveva scavato la fossa e ora, calata la bara, si apprestava a ricoprirla con terra mista a neve e ghiaccio. Ida sentiva il raschiare della pala sul ghiaccio e, ad ogni tonfo sulla bara, sentiva la mano possente di suo padre stringerle la spalla magra.
Erano venuti i suoi compagni di scuola e la maestra l’aveva stretta a lungo fra le braccia. Le aveva detto che l’aspettava presto e che l’impegno nello studio l’avrebbe aiutata a sopportare il dolore.
Numerosi parenti erano giunti da Pisa per il funerale, e le cugine di Amelia si erano prese cura degli orfani per qualche giorno, cercando di consolarli.
Poi i parenti erano partiti, consigliando al vedovo di ritornare in Toscana, dove avrebbero potuto aiutarlo con i ragazzi.
Giunta la sera, nella cucina era calato un grave silenzio: erano finite le vacanze e l’indomani sarebbero tornati a scuola.
Ida guardava i suoi fratelli giocare con i soldatini e il babbo seduto al tavolo, con il capo fra le mani.
Aveva preparato la cena, cercando di ricordare i gesti della mamma, e ora lavava i piatti nell’acquaio, a cui arrivava appena.
Si rese conto che era tardi e l’indomani si sarebbe ricominciata la vita di tutti i giorni.
Litigò con i fratelli e li costrinse ad andare a letto, osservando con stupore che sembrava investita di una nuova autorità. Il babbo aveva appoggiato il capo sul tavolo e si era addormentato.
Si tolse il grembiule e si guardò intorno: tutto era come prima, eppure tutto era così diverso.
Spense la luce e andò a dormire.



