NEMMENO IN TEMPO DI GUERRA…
Il telefono suona a lungo, nessuno risponde e mi preoccupo. Poi una vocina dice pronto. Finalmente sono riuscita a comunicare con Dina e mi stupisco di trovarla sola a casa senza la badante.
“È andata a fare la spesa, è tanto che è via, temo l’abbiano fermata i repubblicani”.
Dina ha 87 anni, mi ha tenuta a battesimo quando era una ragazzina. È l’ultima parente di mia madre che mi è rimasta. Ci sentiamo sempre e, volentieri, in tempi normali, raggiungo la borgata di Prarostino, dove abita. Dalla sua casa si domina la pianura e lo sguardo si spinge alle montagne che incorniciano l’orizzonte.
Nella borgata, che riunisce poche case, hanno vissuto, e sono sopravvissute agli uomini, donne forti, che le intemperie della vita non hanno piegato.
Ora è rimasta sola, le compagne di tè e pranzi domenicali hanno raggiunto il piccolo cimitero che si trova più in alto: un fazzoletto di terra inondato dal sole.
Da tre anni vive con lei Mary, una donna dell’Equador che ha lasciato la sua famiglia per lavorare come badante a tempo pieno.
Cerco di rassicurare Dina: “Ci sono lunghe code al supermercato, con le nuove disposizioni per tenere le distanze di sicurezza; vedrai che tra poco sarà di ritorno.”
È molto triste Dina di non poter più vedere la figlia, le nipoti e i bimbi che, con la loro nascita, hanno rallegrato la sua famiglia.
Lavorano tutti in un’azienda familiare per l’allevamento del bestiame, la produzione di latte e formaggi. È troppo pericoloso per loro, che non si possono fermare, raggiungerla e magari contagiarla. Devono sentirsi solo per telefono.
“Nemmeno in tempo di guerra era così: c’era la paura, la fame, ma eravamo tutti insieme. Anche quando suonava l’allarme ci si riuniva in cantina, ci stringevamo tutti per farci coraggio. Ora non posso vedere nessuno e la televisione è un continuo bollettino di guerra.”
Non so come confortarla, le dico che finirà presto e potremo ritornare agli affetti, ai gesti di prima.
“Ma Mary potrà ritornare a casa? L’avranno fermata?”
Nella sua mente ritornano vive le paure della guerra che talvolta si sovrappongono alla realtà e fanno rivivere l’angoscia di attendere qualcuno che non ritornava più.
Mary mancava dalla sua patria da due anni ed era ritornata a dicembre per due mesi. Aveva rivisto i figli, il marito e i nipoti che nel frattempo erano nati e aveva solo visto in fotografia. Quando si è trattato di ritornare in Italia, si parlava già di blocchi degli aerei, e lei, pur avvisata dalla figlia di Dina del pericolo che stavamo per correre, ha preso uno degli ultimi voli per ritornare al suo lavoro, al suo impegno, a cui dice “non poteva mancare”.
Ho cercato di fare conversazione, nell’attesa, e di spostare il discorso lontano dall’argomento che monopolizza i nostri dialoghi in questi giorni.
Parliamo del risveglio della natura, dei fiori che, favoriti da un clima mite e dalla posizione del suo balcone, fioriscono tutto l’anno e ora sono un tripudio.
Finalmente sento che è arrivato qualcuno nella casa e la tensione di Dina scompare. Ritorna alle sue letture e a un lavoro a maglia che sferruzza per l’ultimo nato.
Sono triste, pensando agli anziani, così vulnerabili e soli in questo periodo. Nelle case di riposo non è permesso che per pochi minuti l’accesso a un figlio e, per coloro che non comprendono la situazione, questo deve essere fonte di grande sofferenza.
Anche nella mia città e nella casa in cui ho vissuto la mia giovinezza, una coppia di anziani è stata portata via dall’ambulanza. Rosa ed Ettore li conosco da sempre, sono invecchiati, attorniati da una bella famiglia ricca di persone e d’amore. Sei figli, che hanno allietato la loro gioventù, mentre ora si alternavano accanto a loro, anziani e malati. Ho sentito uno di loro per telefono: sono disperati, chiusi nella loro quarantena, non temono per sé stessi, ma soffrono al pensiero che i loro genitori, non vedendoli più, possano pensare di essere stati abbandonati. “Se dovesse succedere quello che i medici ci hanno detto sarà probabile, non potremo nemmeno pensare al loro funerale.”
Guardo le immagini al telegiornale, la lunga fila di autocarri dell’esercito che trasportano le bare fuori della città che sta pagando il prezzo più alto in questa pandemia.
Nel silenzio della notte mi sembra di udire il grido di Antigone che reclama i suoi morti per dare loro una degna sepoltura.
Quando finirà tutto questo? Quando ci rialzeremo?
L’immagine si sposta ora sul tetto di un condominio in una città di cui non ho capito il nome: un uomo sta intonando con la sua tromba l’inno nazionale e dai balconi inizia prima in sordina e poi sempre più alto a levarsi il canto.
Dai, ce la faremo, non può essere altrimenti.