Categoria: Palcoscenico

NOSTALGIA - INCONTRO AL TEMPIO VALDESE DI PINEROLO

Giovedì 27 ottobre 2022, al Tempio Valdese di Pinerolo, il nostro gruppo è stato accolto con la consueta simpatia dalle signore dell'Unione Femminile. Abbiamo letto undici testi di nostra produzione, legati al tema della NOSTALGIA.
 

ELISA – IL MINESTRONE
Da quando avevo iniziato a frequentare la scuola elementare, e questo era già il terzo anno, i miei genitori al termine dell’anno scolastico mi mandavano dai nonni per un po’ di tempo. Non ho mai capito se fosse un premio o un alleggerimento di fatica per la mamma, dato che eravamo in quattro (tra fratelli e sorelle) a scorrazzare in casa.
I nonni abitavano a Sassi, in Borgata Rosa, in una casa con un frutteto sul retro, che si arrampicava sulla collina di Superga. Davanti c’era un bel pergolato di uva fragola che consentiva, nella bella stagione, di consumare i pasti all’aperto. Di fianco c’era anche un orto coltivato dal nonno.
La cucina era di dominio totale e incontrastato della nonna. Figli e nipoti circolavano evitando di spostare stoviglie e altri attrezzi dalla loro sistemazione abituale.
La nonna, di costituzione minuta, coi capelli raccolti sulla nuca, si muoveva con leggerezza intorno alla stufa, accesa anche in estate. Quell’anno però iniziò a farsi aiutare da me quando andava nell’orto a raccogliere la verdura.
“Elisa, prendi un rametto di timo, è quel cespuglio proprio davanti a te.” Nel frattempo lei raccoglieva, oltre alla verdura, anche molte erbe odorose. Con nonna Aurora ho imparato a conoscere le foglie e i profumi della salvia, del rosmarino, della maggiorana, dell’alloro, della menta, del prezzemolo, del basilico.
Ogni tanto lei raccoglieva anche rametti o foglie di altre piantine che non sono mai riuscita a distinguere.
Tornando in cucina la nonna poi sbucciava, tagliava, tritava con tagliere e mezzaluna, poi metteva il tutto nella pentola a bollire per ore, finché in tutta la cucina si diffondeva un profumino così invitante che non vedevo l’ora arrivasse il momento di sedersi a tavola.
Talvolta la nonna metteva nella minestra anche delle croste di parmigiano che nella cottura si ammollavano, mantenendo però una certa consistenza nella parte più interna. Quando succedeva, un pezzo era sempre riservato a me, perché sapeva quanto ne fossi ghiotta.
Per fortuna il minestrone era sempre abbondante, per cui tutti riuscivamo ad ottenere una seconda porzione. E per la nonna questo era la migliore gratificazione.
Tornando a casa mia, parecchie volte ho decantato la delizia del minestrone della nonna. La mia mamma ha provato e riprovato, aggiungendo o eliminando verdure ed erbe, ma il sapore del minestrone della nonna era unico, e per me, ancora oggi, è impareggiabile.

LESLY – BABBO NATALE
Il mio primo Babbo Natale l’ho visto in Honduras quando ero piccola, a casa della Zia América, la sorella più vecchia di mia madre.  La nonna mi aveva portata da lei per le feste di Natale e Capodanno. 
Era la Nochebuena, in Italia sarebbe la vigilia natalizia, tutti avevamo dei vestiti nuovi, eravamo tutti contenti; sul tavolo tanto cibo, che la zia e la nonna avevano preparato per l’occasione. Un tacchino ripieno al forno era il piatto principale, il profumo si sentiva in tutta la casa.
Ma il momento più atteso era l’arrivo di Babbo Natale. Per la prima volta l’avrei visto di persona. Non si parlava d’altro quel giorno. Io ero molto emozionata, soprattutto a un certo momento, quando abbiamo sentito suonare una campanella. Tutti ci siamo affacciati alla grande finestra di casa. Non credevo ai miei occhi: una gran carrozza tutta illuminata, con dei cavalli, si stava avvicinando a casa nostra, con Babbo seduto davanti. Si fermò davanti al nostro cancello, entrò con un enorme sacco sulle spalle, vestito con un costume rosso e bianco, stivali neri, un’enorme cintura nera, e una lunga barba bianca. Ci stava portando i regali. E non solo, portava doni per tutti i bimbi della zona privata della compagnia del banano.
Il Babbo era lì davanti a noi, parlava in modo un po’ strano, fermandosi ogni tanto per farsi una grande risata, jo jo jo! Era come un tuono. La sua voce assomigliava un po’ a quella dello zio Luna. Ma no, quello lì era il Babbo, che portava i nostri regali.
Iniziò a chiamarci per nome. Quanta emozione quando sentii il mio. Detto dal Babbo suonava così bello…
Avevo chiesto una bambola infermiera e il Babbo me l’aveva portata. Questo sì che era un vero Natale. Non so dove fosse mia madre, le uniche persone che ricordo sono mia nonna, la zia e suo marito, lo zio Luna: non sembra un nome, vero? Ma si chiamava così: Josè Calasán Luna, per me era lo zio Luna, e dopo seppi che era stato proprio lui, travestito da Babbo Natale, a portarci i regali.
Quei pochi minuti insieme mi sono rimasti impressi per tutta la vita.
Gli zii mi hanno regalato l’illusione, un bellissimo sogno vissuto intensamente. Da loro ho trascorso un momento che avrei voluto si fermasse per sempre.

MAURA – RICORDO DEL NONNO
L’estate arrivava, come ogni anno..
La sentivo sulla pelle che incominciava a scoprirsi sempre di più, la percepivo negli odori, nei nuovi profumi, nel verde intenso, nelle serate lunghe e tiepide, nel garrire delle rondini e nel loro rincorrersi, proprio come facevamo noi: loro sopra e noi sotto a giocare nella piazza della chiesa. Una festa, con relativa recita, avrebbe concluso gli impegni “sociali”, rivolti a tutta la comunità.
Poi mi aspettava la vacanza nella colonia marina che mi accoglieva ogni anno: avrei rivisto il mare, percepito nuovi odori e suoni, la voce incessante di tutta quell’acqua in movimento che gioca con le nuvole e il cielo per cambiare colore.
Una di quelle estati, al ritorno dalla colonia, trovai una sorpresa molto dolorosa: il nonno Attilio era all'ospedale ed era molto grave: era stato operato d'urgenza, c'era un'infezione e in quel momento era assistito giorno e notte. Non me lo fecero più vedere.
Quel malore era successo mentre facevano il fieno e io me lo vedevo lassù sul carro, il nonno, mentre sistemava il fieno buttato su dai tridenti dei lavoranti per distribuirlo bene come solo lui sapeva fare.
Li ricordo sudati, in canottiera e con il fazzoletto di stoffa, con nodi ai quattro angoli, sulla testa, per ripararsi dal sole.
Avevo anch'io il mio incarico: tenere le mucche tranquille perchè non facessero dei movimenti bruschi muovendo il carro. Allora, mi procuravo delle frasche e le passavo continuamente sul dorso delle bestie per allontanare i tafani che le pungevano a sangue mentre le mosche si infilavano intorno agli occhi umidi enormi, mansueti.
Con delle pagliuzze cercavo di allontanare quegli insetti fastidiosi e parlavo alle due mucche pronunciando più volte il loro nome: loro sembravano capire perchè muovevano le orecchie verso di me.
Nelle sere d'estate il nonno attaccava una sola mucca ad un carro con le sponde dai bordi alti e andava a tagliare erba in un prato lontano.
Andavo volentieri con lui, perché in estate gli amici erano quasi tutti lontani, nelle case di montagna o dai nonni e mi trovavo a giocare da sola. Saltavo sul carro, mi aggrappavo al bordo, lasciavo che le case e il paesaggio sfilassero lentamente ai lati mentre e, come il capitano di una nave, guardavo avanti verso la nostra meta.
Aiutavo il nonno a sistemare a bracciate l'erba sul carro e sdraiata sul tappeto fresco e profumato guardavo le prime stelle accendersi nel cielo.

MARINELLA - PARTENDO DA UN PARTICOLARE
I miei occhi sono fissi sulle sue mani che stringono la zappa. Sono grandi, solide, mani operose che hanno stretto attrezzi, sbriciolato la terra, accarezzato rami, germogli, staccato foglie, raccolto frutti.
Sono mani un po' nodose, le vene guizzano nello sforzo di tagliare le zolle di terra; le riconoscerei tra mille, anche ad occhi chiusi come un cieco che legge in Braille. Sta zappando cercando di fare un solco tra un muretto e il resto del prato. E' un po' curvo non solo nello sforzo, ma anche per l'età e per una vita di lavoro iniziata nei campi da bambino. Sta fischiettando. Gli arrivo dietro e lo abbraccio come per fargli una sorpresa: "Papà sei tornato?"
Non sembra stupito, mi aspettava : "Non sono mai andato via!"
Vorrei chiedergli cos'era allora tutto quel dolore che mi trafiggeva come una lama che affonda nel cuore. Sarà stato un sogno, penso, un incubo in cui si soffre come nella realtà. Ma ora sono troppo felice, non voglio pensarci più.
"Cosa stai facendo?" "Ti sto piantando i bulbi per la prossima primavera".
Posato per terra un cesto è colmo di bulbi lucidi, simili a cipolle.
"Sono narcisi, crochi, giacinti, tulipani. Tanti colori rallegreranno questo giardino, faranno da bordo a questo muretto basso che gli farà da riparo. Ti ricordi quanti fiori avevamo nel giardino della vecchia casa?" mi chiede.
Ricordo cespugli di rose che delimitavano il cancello d'ingresso, bordure con mughetti, viole del pensiero. Mio padre coltivava gli ortaggi e la frutta ma riempiva anche di colore la nostra vita.
Ha posato i bulbi nel solco, li ha ricoperti di terra sbriciolata e l'ha innaffiata.
Ora camminiamo tra le foglie secche che crepitano sotto i nostri passi e guardiamo il cielo azzurro su cui vediamo sfrecciare gli aerei che lasciano una scia lanosa, di fronte guardiamo la corolla di montagne che incorniciano l'orizzonte. I colori dell'autunno, in tutte le tonalità sembrano posate abilmente per fare delle smaglianti sfumature.
Prendo le mani di mio padre, le stringo forte, guardo il suo viso con poche rughe, le sopracciglia folte e il piccolo rigonfiamento sul sopracciglio sinistro che ho uguale anch'io, il sorriso bonario e gli occhi ridenti e colmi d'amore.
Improvvisamente mi sveglio, la delusione si mescola alla nostalgia. Sono sola in camera, sento armeggiare in giardino.
Dopo colazione, mi infilo una maglia ed esco sotto il portico dove batte il sole caldo, accarezzo Luna che mi corre intorno, la faccio giocare un po’. Mi dirigo nel giardino, improvvisamente vedo la terra smossa, c'è un solco accanto al muretto basso, la terra è umida.
Accarezzo la terra, chiudo gli occhi e alzo il viso al sole.

MIRELLA – LASCIARE LA PROPRIA CASA
La mia unica figliola s’innamorò di un ragazzo italiano, si sposarono e andarono a vivere nell’Italia del nord, lontano dalla bella Bretagna.
Per quanto mio marito ed io fossimo felici per lei, la sua assenza si faceva sentire. Non sapevo come colmare questo vuoto, ma pensai che ci saremmo potuti sentire per telefono e reciprocamente ci saremmo fatti visita. Riuscimmo bene in quest’intento per parecchi anni. Molto spesso, con il mio Roger, ho preso il treno per Torino-Porta Nuova: conoscevamo ormai a memoria gli orari, le attese per il cambio a Parigi.
Andammo poi in pensione; questo ci permise di fermarci in Italia per più tempo e goderci anche la nipotina che nel frattempo era arrivata.
Ma gli anni passano per tutti, francesi e non: il mio Roger mi ha lasciato qualche anno fa ed io, nonostante i miei acciacchi reumatici, raccogliendo tutte le mie forze, fino a due anni fa sono partita per Torino.
Poiché le mie ossa peggiorano di giorno in giorno, penso proprio che non andrò mai più a far visita a mia figlia: riesco però ad essere indipendente nella mia casetta, curo il mio piccolo giardino pieno di fiori, trascorro molto tempo con le mie amiche, anch’esse anziane.
La mia salute peggiora, cado più volte, provocandomi fratture che guariscono molto lentamente: capisco che non posso più vivere da sola. Mia figlia ha contatti telefonici giornalieri con i medici e viene a trovarmi spesso. Mi offre più volte la possibilità di andare a vivere con loro, ma per me è veramente difficile pensare di cambiar vita: ho i miei ritmi, le mie cose, le mie amiche e per di più non conosco l’italiano. Capisco che questa situazione non è più sostenibile, ma non so cosa fare. Dopo averci pensato molto, tuttavia, ho preso la mia decisione: andrò in Italia. Per farmi coraggio mi auto convinco che sarà solo per un periodo, ma so anche che ho 88 anni.
È tutto organizzato. Mia figlia viene a prendermi insieme al marito: sono ancora al convalescenziario, si ritira la cartella clinica e si va nella mia casetta per preparare i miei effetti personali. Rivedo il mio giardino, che, nonostante la mia assenza, sfoggia i suoi bellissimi fiori, le camere intatte, ferme, come se aspettassero il mio ritorno. Ma il tempo è poco: via questi pensieri, si deve preparare la valigia.
Il mattino seguente, di buon’ora, si parte, questa volta in macchina: dovrei essere felice, non devo neanche aspettare il cambio a Parigi. Non ho tempo di riguardare tutte le camere, ma riesco a fare un ripasso veloce di tutto ciò che le arreda: voglio che tutto resti impresso in un angolino della mia memoria. Scendo le scale lentamente, aiutata dalla mia stampella; quasi ad ogni passo mi volto indietro, guardando ogni angolo, ogni mobile, che piano piano mi sussurrano: “A bientot, Henriette”.

PETRA - PRESENZE
Quando comunicai ad amici e parenti che, sposandomi, sarei andata ad abitare in casa di mio marito e della sua mamma, tutti mi diedero della pazza.
«…Una ragazza libera e indipendente come te va a chiudersi in casa con la suocera? Tu non ragioni, hai perso il lume, sicuro! È una cosa che facevano i nostri vecchi, andare a vivere nella casa dello sposo e sottostare alle angherie di suocera e parenti vari. Tu che leggi tanti libri, non sai quali sofferenze hanno sempre sopportato le spose? Tua madre stessa ha passato l'inferno quando ha trascorso quel periodo a casa di tua nonna! Sei proprio una pazza!»
Questo in breve è quanto più o meno tutti mi hanno detto. Però io non ascoltavo nessuno, andavo dritta per la mia strada, sicura del mio folle amore per l'uomo che sarebbe diventato mio marito.
M’innamorai subito anche della casa, con quel piccolo giardino sul davanti, il cortiletto dietro. Fiori e rose un po' selvagge e la compagnia di un gatto e di una tartaruga da terra. L'ingresso era unico, sia per me che per Olga, mia suocera, ma mi ero persuasa che il fastidio fosse più suo che mio. Ero io ad invadere il suo territorio per andare nell'appartamento di sopra e in fondo ero io che le avevo usurpato il possesso totale della casa.
Non credo sia stato facile per lei dividere tutto ciò che le apparteneva e questo disagio l'ho rilevato dal suo dominio sulla lavatrice. Avevamo una lavatrice in due e per tantissimi anni io non ho mai potuto fare il bucato. Lo faceva lei per tutti, la sua lavatrice non si toccava! Si lamentava del fatto che mettessimo nel cestone la biancheria ancora pulita, a suo parere, ma la cosa mi faceva sorridere e ho continuato a riempire il contenitore.
Comunque, lo spazio non ci mancava e questa è stata la nostra salvezza. Ognuna di noi due aveva una cucina e un bagno propri e vi assicuro che tale indipendenza ci ha rese felici.
Ho adorato fin da subito quella casa, perché aveva una storia: i suoi muri, i suoi mobili, le sue scale mi parlavano del nonno, dello zio, del padre. Tutti avevano lasciato un'eredità e tutti vivono ancora negli angoli più o meno nascosti di questa dimora.
Dopo undici anni di convivenza è morta anche la suocera e mi sono ritrovata una casa immensa, piena di ricordi.
Ho aperto per la prima volta certi cassetti e certi armadi, scoprendo lettere, fotografie, tovaglie di fiandra, tendine ricamate, lenzuola meravigliose che raccontano la dedizione a certe arti femminili, che ora non abbiamo più il tempo di coltivare.
Vivo la maggior parte della giornata nella grande cucina di Olga, uso le sue pentole, i suoi cucchiai di legno, i suoi bicchieri e quella pentola di alluminio con l'impugnatura fatta con un pezzo di manico da scopa. L'aveva aggiustata così Sandro, il marito, perché era una pentola buona e si era rotto solo il manico. Adoro quel tegame, solo lì dentro mi riescono bene le carote!
Gli oggetti ci sopravvivono e nella loro lunga vita trasportano quella di chi li ha posseduti. Il ricordo è ravvivato dagli oggetti e anche se non ho mai conosciuto gli uomini di casa, il nonno, il padre e lo zio, tante cose mi parlano di loro e rendono vivi gli ambienti.
Pur avendo trasformato le stanze, spostato mobili, cambiato disposizione di tante suppellettili, diciamo ancora “vai nella stanza di Olga”, “guarda nel cassetto di papà”, “prendi l'orologio di nonno”. Sono tutti qui con noi, il loro spirito è con noi.
Forse per questo che ci affezioniamo alle case, al territorio, ai luoghi, perché lì rimane l'essenza di coloro che abbiamo amato, la loro e la nostra storia.
E poi c'è anche la suggestione, sicuramente si tratta di suggestione, quella sensazione di presenza accanto a me, quell'aria bloccata da un ostacolo, la certezza di non essere sola. Mi capita all'improvviso, senza che stia seguendo un preciso pensiero o che abbia un determinato ricordo. Eccola lì, la presenza silenziosa e impalpabile di un qualcosa o di un qualcuno che mi sta accanto. Mi prende alla sprovvista, ma non mi spaventa. C'è qualcuno lì con me, qualcuno della casa, un famigliare, sicuro.
Così voglio credere, quando vivo quella fantasia. Sono infantile, faccio ridere, ma mi piace credere che uno spirito buono si aggiri per questa vecchia casa, costruita da quel nonno burbero con i baffoni, che ha creduto di aver fatto l'affare della sua vita, comprando questo terreno costato pochi soldi, solo perché era un terreno alluvionale. Il nonno ha capito troppo tardi cosa significava “terreno alluvionale”, dopo innumerevoli alluvioni che hanno colpito lui, suo figlio e tutti noi.
Eppure, continuiamo testardamente a vivere in questa casa, sperando sempre che il Po sia magnanimo e non esondi drammaticamente.

OLGA -  SOGNO E REALTÀ
I ciliegi in fiore proteggevano la bambina che leggeva, seduta nella loro ombra luminosa.
Ono aveva circa sei anni: il viso delicato era valorizzato dai neri capelli acconciati in un complicato chignon, da cui spuntavano fiori e bacchette d’avorio; indossava un chimono coperto di piccoli fiori bianchi, trattenuto in vita da una fusciacca rossa: l’insieme la faceva apparire una statuina di porcellana.
Ono era una bambina allegra e riflessiva; fin da piccola aveva mostrato una spiccata capacità nell’appropriarsi della difficile scrittura giapponese e in casa le sorelle maggiori  l’avevano  sostenuta e aiutata. In poco tempo, Ono era stata in grado di leggere poesie brevi di famosi autori locali e di fare i primi tentativi di composizioni personali.
Pensò a una delle ultime sue creazioni.

Api dorate
Cullano i sogni di bimba.
Non svegliatemi.

Sapeva che non era ancora perfetta nella metrica, però era sicura che quei tre versi esprimessero in pieno il suo attuale stato d’animo. Da un po’ di tempo, Ono non si sentiva più serena come prima: in casa stavano dicendo che era ora per lei di cominciare a pensare alla sua vita futura, come a quella di una guerriera e non come a quella di una poetessa.
Era mai pensabile che in lei potesse avvenire una simile trasformazione?
Le avevano sempre detto che il suo nome era stato scelto in onore di una famosa scrittrice del IX secolo e lei si era sentita collegata da un filo sottile a quell’antica artista.
Le sue sorelle adulte erano già entrate a far parte delle donne guerriere, com’era tradizione: visto che non c’erano figli maschi, nella famiglia toccava alle donne il compito di difendere la patria fino alla morte, com’era già toccato alla sorella maggiore.
Ono, però, aveva sempre pensato che non avrebbe avuto la stessa sorte: lei non voleva combattere, lei voleva scrivere.
L’anno precedente, le avevano regalato una valigetta con i pennelli e l’occorrente da scrittura. Ono ne era stata felice. Presto, però, aveva scoperto che quelle scatole erano fatte apposta per le guerriere, che se le portavano in battaglia. Era stato un duro colpo per la bambina. Si era sentita tradita, circuita dalle persone che più amava.
Ono sollevò lo sguardo dal libro e vide una delle sorelle avanzare nel frutteto con un lungo bastone da combattimento, e seppe che non sarebbe potuta sfuggire agli odiati esercizi preparatori.

ROSSANA – FRATELLO MARE
Mi ero iscritta alla Torino Sub, con l'intenzione di imparare i segreti dell'apnea. Le bombole no, mi facevano troppa paura. Ma quando, alla prima lezione, arrivai in ritardo, mi spedirono frettolosamente in vasca e Leda, la segretaria, mi disse:
-Vai laggiù da Luigi, quello più vecchio, e digli che sei la nuova.
Andai laggiù e i più vecchi erano due; mi avvicinai a quello sbagliato e gli dissi che ero lì per la prima lezione.
-Bene, entra in acqua che ti passo l'attrezzatura.
Eseguii, che ne sapevo io? Ero lì per imparare e quindi dovevo fidarmi.
Calzai maschera e pinne senza problemi, perché già li conoscevo bene. Edo, e non Luigi, mi passò una pesantissima bombola imbragata da cinghie, che infilai come un gilet e, sempre ligia ad eseguire perfettamente le istruzioni, mi infilai in bocca quello che, seppi successivamente, era un erogatore. Provai la respirazione e con timore mi immersi piano nel liquido freddo della piscina. Tenevo stupidamente gli occhi chiusi nella maschera; ma, quando sentii l'acqua chiudersi sui miei capelli, li aprii, anzi, li spalancai, perché vedevo sott'acqua tutte quelle persone che andavano e venivano, facevano strani gesti e strane manovre e… miracolo: respiravo.
Tornai a casa che la felicità mi esplodeva fuori come certi fuochi d'artificio e con la certezza di voler essere una "donna rana".
Sorvolo sulle meraviglie del mare di sotto, perché si possono vedere in tanti video e documentari, e son cose che vanno viste perché è proprio nel vederle che sta la poesia di tanti colori e forme. Io amo soprattutto i documentari senza colonna sonora, dove i suoni sono quelli reali e il più forte e gorgogliante è proprio il respiro umano.
Da anni, ormai, non mi immergo più con le bombole; ma è stata una bella avventura, che mi ha fatto amare la vita e rispettare il mare.
I momenti esaltanti sono stati molti: l'improvviso spruzzo di un capodoglio in lontananza, mentre risalivo sul gommone; un giorno in Sardegna, dopo la tonnara dell'isola di San Pietro, le schiene di tre delfini ci hanno accompagnato per un tratto, mentre, con Leda e Luigi, tornavamo da un'immersione tra le aragoste. E in Mar Rosso, vicino a Hurghada, tra innumerevoli pesci e coralli, una tartaruga mi  planò così vicino che quasi mi toccava, poi  lentamente proseguì la sua strada nell'immensità.
Tra i relitti, ricordo il Thistlegorm, che partì la prima settimana di settembre da Glasgow diretto al Mar Rosso e là, all'ancora nello stretto di Gobal, la notte del 6 ottobre 1941, venne colpito e affondato. Ora giace sul fondo, con il suo carico sparpagliato intorno. È enorme: 131 metri per più di 9.000 tonnellate, e sta là a testimoniare la crudeltà delle guerre. Ricordo con affetto i tanti compagni d’immersione, amici come si diventa dopo aver condiviso esperienze emozionanti.
Amo il mare d'inverno, quando è in burrasca e frusta la costa con le schiume torbide di alghe, sabbia e pezzi di legno consunti, mentre al largo frotte di bianche ochette punteggiano il blu profondo. Lo guardo e sento la sua magnifica potenza. Amo osservare le rocce salate e incrostate, ne scruto gli anfratti, anche a costo di spellarmi un po' i piedi.
Quando ho potuto, sono andata in vacanza con la tenda piazzata vicino al mare; svegliandomi all'alba, uscivo piano, per rispetto verso chi dormiva, ma soprattutto per immergermi, sola e con il giusto ritmo, e fondermi in quella liquida fonte di vita.

ROSALINDA - Il mare e la luna

Quando passeggio in riva al mare,
trovo sempre il modo di pensare
ai tanti ricordi del passato
che avevo anche un po' dimenticato.
Il mare risveglia in me questo effetto
perché è un amico perfetto.
Assopiti pensieri viaggiano nel tempo
e tanti i ricordi di quando ero bambina,
le litigate con i miei fratelli,
ma erano i giorni più belli.
Rivivo quei momenti e li afferro
in un istante perché quella non era
noia, ma solo gioia.
Anche la luna era mia amica,
parlavo con lei dei sogni
della mia vita, ora sembra stanca
e mi guarda da lontano…
vorrei però che mi tenesse ancora la mano.
Oggi ho riempito la mia vita con mille
cose da fare per non aver più
tempo di pensare, ma ritorno spesso
a passeggiare dal mio amico mare
quando bambina voglio ritornare,
dove ritrovo tutto il mio passato,
anche quello che avevo dimenticato.

TERESA - Erano radici di carta
È un’estate calda: l’arsura la si legge sull’erba secca e giallastra, sulle foglie penzolanti dai rami, o sparse sul terreno come fosse d’autunno. Il letto del fiume mostra sabbia e ciottoli non più sommersi dall’acqua, ci cammino sopra incespicando, con gli occhi fissi a terra in cerca del sasso più bello per forma e colore.  Ne trovo uno verde e bianco, raggiungo una panchina e mi siedo. In giro non c’è anima viva: mi chiedo perché si dica così, e poi si dica anche “l’anima dei defunti”, in fondo l’anima è fortunata, viva o morta per lei non fa differenza, per me sì, soprattutto se continuo a stare qui, in questo forno.
Eppure, non mi muovo, la luce dei raggi del sole filtra tra le foglie accartocciate, inonda i miei occhi con un chiarore accecante.
Non mi muovo, perché tutto quel biancore l’ho già vissuto: riaffiora in me l’eco di un cielo del sud, distante più di millecinquecento chilometri da questa panchina, da questo fiume. Riappare un sole implacabile, un vento ardente di scirocco che fa sciogliere l’asfalto delle strade, crea miraggi nell’aria tremolante e incendia a volte la carta, quando i dardi infuocati attraversano un pezzo di vetro posto vicino. Le strade sono deserte, l’umanità è rintanata nelle case oscurate, chiuse con ogni mezzo al caldo che arriva dai deserti africani. Ma io, ragazzina adolescente, degna figlia dei berberi, non soffro il caldo: non una goccia di sudore, mentre mi affretto a leccare un gelato pistacchio e cioccolato nelle vie che occupo da padrona assoluta.
Sto ripensando a Palermo, alla città che ho lasciato a nove anni, rivivo per qualche momento l’acuta nostalgia per quella terra che, con la mia famiglia, avevamo dovuto abbandonare, in cerca di un lavoro che consentisse a mio padre di sfamarci.
Ripenso al lento e progressivo oblio che aveva impolverato i ricordi, alla città nella quale mi ero inserita, alla nuova vita: la scuola, gli amici, i luoghi di Torino che mi erano ormai cari. Col passare degli anni non sentivo il bisogno di ricercare le mie radici, forse perché non sentivo di appartenere interamente a nessuna delle due città.
Chissà se è vero che le radici possono diventare di carta, svolazzare in aria scosse dal vento della dimenticanza. Certo, l’avanzare dell’età matura porta a nostalgie per tutto quello che è stato e non sarà più, per quei ricordi di bambina che mi appaiono preziosi, succosi come chicchi rubino di un melograno che si sgrana poco per volta, svelandoti il succo aromatico, dolce ma anche un po’ acidulo.
Ho bisogno di camminare, raggiungo una fontanella, calmo la sete con una lunga bevuta e mi bagno il viso e le braccia.
Ripenso a quell’inizio di novembre, al ritorno dopo venti anni di assenza. Rivedo le campagne intorno a Palermo, gli agrumeti risplendenti di fiori e frutti che spargono nell’aria un’intensa fragranza di zagara. Nel pomeriggio mi ero tuffata nelle vie del centro, nei mercati, alla ricerca di tracce della festività del due Novembre.
Per noi bambini palermitani, il giorno dei morti era il nostro Natale. I genitori mi raccontavano che i parenti morti ritornavano nella notte del primo novembre per proteggerci e portare doni ai piccoli. In tutte le case, quella notte, si lasciavano le tavole apparecchiate con pane e vino, offerti ai defunti. 
Quando crollavamo addormentati, i genitori preparavano il “canestro”: un cesto, contenente una bambola di zucchero, la “Pupaccena”, che poteva essere di forme diverse - bambole, paladini cavalieri o altro - poi frutta secca, cioccolatini, mandarini e melograni. Ricordavo la città piena di luci: negozi e banchi al mercato colmi di dolciumi, cose buone da mangiare e tanti giocattoli.
Ora, molti anni dopo, girando per le strade, i segni della festa mi sembrano meno evidenti. È davvero cambiato il panorama, o il mio sguardo è ormai troppo adulto?
Alcuni commercianti mi chiariscono il dubbio: le offerte tradizionali, ormai, si concentrano in un quartiere della città, dove viene allestita una grandissima fiera.
Che delusione! Quante cose sono cambiate senza di me…
L’alba del giorno dopo mi trova sveglia: mi preparo ed esco. Fuori è ancora buio, l’aria è tiepida anche a novembre, ma era sempre così. Per strada non c’è nessuno, solo il rumore lontano di qualche auto. Raggiungo la casa dove sono nata, un bel palazzo antico. Non ci sono finestre illuminate, la gente dorme. Fuori solo qualche gatto in cerca di qualcosa da mangiare. Al numero novanta c’è il mio portone chiuso, mi avvicino e mi ci siedo davanti, sullo scalino di marmo grigio.
Comincio una sorta di riflessione su quest’ isola, per la quale provo un amore rancoroso: penso alle stragi e ai morti di mafia, al mio disprezzo per la mentalità mafiosa, alla vergogna di appartenere, in qualche modo, a una terra che non era ancora riuscita a liberarsene. Una terra che ha costretto tantissimi a lasciarla per cercare lavoro altrove. Era una parte che volevo cancellare, ma le storie di mafia sono anche storie di lotta quotidiana, di coraggio e di riscatto, di giovani che manifestano senza paura per le vie della città.
È questa la Sicilia che mi manca, che vorrei condividere, alla quale sento di appartenere.
Appoggio le spalle al portone, immagino il momento della mia nascita: la luce, l’ostetrica e le altre donne. Le zie mi prendono, mi lavano e vestono. Poi, come da tradizione, bagnano con qualche goccia di profumo di zagara testa e bavaglino e mi mettono tra le braccia di mia mamma. Il profumo della zagara ha accompagnato i giorni di festa di tutta la mia infanzia: fa parte di ogni cellula dei siciliani. Avverto una grande tenerezza: per me, per mia madre, mio padre, la mia famiglia e, infine, la mia terra.
Intuisco che sono io a fare la differenza, a dare significato alle cose che ho vissuto, alle persone che ho amato, ai luoghi e alle case che ho abitato, è questo, è il mio esserci stata, il mio aver amato ed essermi amata, a far nascere e vivere la nostalgia.


                                                       

 

Autore: Lucia Berardi
Data: 28 ott 2022