RACCONTARE IN TRE - ULTIMA PARTE

CAPITOLO 15

L’uomo, forte e massiccio, sfiorò con delicatezza il polpaccio della donna distesa sul divano. Da quando erano arrivati a casa del dottore, Jole aveva smesso di tremare e sembrava più rilassata. Non aveva voluto saperne di andare all’ospedale, tra l’altro parecchio lontano. Così Osvaldo aveva telefonato a un suo amico, omettendo di dire che si trattava di un veterinario.
Orso Perron  esercitava in un paese di confine poco distante: capito al volo il problema, gli aveva detto di venire subito. Per tutto il tragitto, durato circa mezz’ora, Jole era rimasta in silenzio, con gli occhi chiusi: nessuno aveva osato farle domande.
C’è un’infezione, disse il dottore, ma siete arrivati in tempo.
Andò a prendere degli oggetti in ambulatorio e li allineò sul tavolo, poi s’infilò un paio di guanti e lavò  la  ferita con un liquido giallo.
Alice, nel frattempo, aveva sbirciato oltre la porta rimasta socchiusa.
Mi scusi, dottore… incominciò, imbarazzata.
Di solito curo gli animali, tagliò corto Orso. E, guardando severamente Osvaldo: Non gliel’avevi detto?
Che importa? È ancora più difficile, no? Gli animali non parlano.
La signora non la pensa come te… Stia tranquilla: farò quel che posso, visto che è un’emergenza. Poi andrete da un medico vero.
Alice arrossì, mentre Luciana, di nascosto, le dava una gomitata.
Adesso sistemiamo il taglietto, disse Orso con nuova dolcezza, rivolgendosi a Jole. Dopo averle messo un telo pulito sotto le gambe, le spruzzò dell’anestetico sulla ferita. Con questo dovresti sentire un po’ meno male.
La ripulì accuratamente, diede un paio di punti, infine coprì la sutura con un cerotto.
Sei vaccinata contro il tetano?
Ho fatto il richiamo due anni fa, prima di un viaggio in India, rispose lei, che durante la medicazione aveva stretto i denti.
Allora facciamo solo l’antibiotico. Adesso dovrebbe ripulirsi un po’. Chi l’aiuta?
Guardò le tre donne. Francesca si fece avanti, prendendo gli asciugamani puliti che lui le porgeva.
Sul lavandino c’è il detergente asettico, usatelo. E non bagnate la medicazione.
Jole si guardò intorno smarrita.
Non ho niente per…
Non ha niente di pulito da mettersi, dopo, precisò Luciana.
Ah già. Oddio… non so se ho qualcosa di adatto. Venga a vedere, per favore.
Tornarono poco dopo con una maglietta XXL, che a Jole avrebbe fatto da camicia da notte, e pantaloncini da atletica con un cordone in vita. La donna si alzò faticosamente e andò verso il bagno, appoggiandosi al braccio di Francesca.
Appena le due si furono chiuse là dentro, gli uomini si misero a parlare di un cane che, qualche tempo prima, Osvaldo gli aveva portato in fin di vita, investito da un’auto, e che Orso aveva salvato. Dopo un po’ uscirono sul balcone.
Non credi anche tu che… bisbigliò Alice.
Mi sembra uno che sa il fatto suo. Osvaldo si fida.
Ma è una specie di orco!
Orso! Corresse Luciana, ridendo.
Di nome e di fatto…
Jole tornò in quel momento, sorretta da Francesca. Forse per effetto degli indumenti sovrabbondanti, sembrava ancora più magra.
Orso, subito rientrato, l’aiutò a sdraiarsi sul solito divano.
Muoviti adagio, disse, potresti avere un capogiro. Sei coraggiosa, Jole. Osvaldo mi ha detto che hai aspettato un mucchio di tempo, da sola su quella pietraia.
Due giorni… e due notti.
Con dita delicate, Orso le scostò i capelli dalla fronte e scoprì un livido bluastro.
Ricordi di essere svenuta?
Non so… penso di sì.  È tutto confuso… ma ricordo bene che lui mi puntava il coltello, per farmi cadere nel precipizio!Un momento, intervenne Osvaldo.  È Fredo che ti spinta nel canalone?
No! Voleva buttarmi giù dalle rocche, dietro alle case Faure, così sembrava un incidente… Stava per riuscirci, ma in quel  momento il ragazzo è venuto fuori, si son messi a lottare e io… io sono scappata, scappata… ho corso come una pazza, non ho mai corso tanto in vita mia!
Nella foga del racconto, Jole si era sollevata sui gomiti; si lasciò ricadere sfinita.
Stai tranquilla, disse Orso con voce gentile, ma ferma. È tutto finito, qui sei al sicuro. Hai solo bisogno di riposare.
Con gesti esperti, le infilò l’ago di una flebo nel braccio. Poco dopo, Jole dormiva. Orso ritirò gli strumenti del mestiere e mise sul tavolo una bottiglia di genepì con cinque bicchierini.
Questo l’ho fatto io, l’anno scorso. Credo che le signore ne abbiano bisogno.
Nessuna si fece pregare: lo aveva detto il medico! Dopo il secondo giro, avevano ragguagliato Osvaldo e il suo amico sui fatti accaduti nei giorni precedenti: il ritrovamento di un cadavere da parte dei ragazzini coincideva in modo inquietante col racconto di Jole.
La polizia sta indagando, disse Francesca. Hanno messo sotto sequestro le grange. E sono già venuti in paese a fare domande.
Nessuno sospetta di Leandro Faure, osservò Luciana. Eppure credo che c’entri anche lui, insieme a quel cacciatore. Forse dovremmo andare dal commissario e dire tutto quello che sappiamo.
Non è uno nuovo? Uno del sud? Chiese Orso. Del nord o del sud, basta che sappia fare il suo lavoro, aggiunse subito.
Sentite, disse Osvaldo, per il bene di Jole, bisogna che quei due non sospettino di nulla, finché non siamo sicuri che saranno arrestati. Penso che andrò a parlare con Gino: lui conosce l’ambiente, e mi risulta che il commissario abbia molta stima di lui. Quanto a voi tre, è meglio che torniate a casa e facciate finta di niente. Jole…
Jole, per ora, non può muoversi. Non è prudente. Se i poliziotti vogliono sentirla, possono venire fin qui, ti pare?
Cosa dire, Orso… sei un amico.
No, sono il dottore, in questo caso.

CAPITOLO 16

Il dottor Crisafulli poteva sembrare un ometto insignificante, a parte due folte sopracciglia nere, in contrasto con la calvizie, e lo sguardo intelligente. Dopo mezz’ora di conversazione con Gino e Osvaldo, strinse loro la mano con vigore insospettabile.
Vi ringrazio di essere venuti. Voglio parlare al più presto con la signora Faure: pensate sia in grado di…
È ancora sotto shock, disse Osvaldo. Più che altro, credo, è terrorizzata all’idea di incontrare il marito e l’uomo che l’ha aggredita. Se vuole, posso accompagnarla da lei.
Quel pomeriggio, una Ford grigio scuro guidata da un agente in borghese, con a bordo il commissario e Osvaldo, si diresse verso la casa del veterinario.
Era una sobria costruzione in pietra, piuttosto isolata, presso il confine: la circondava un vasto prato, con gruppi di larici; c’erano anche delle tettoie per gli animali, un recinto e una legnaia. Orso Perron aspettava sulla porta e venne loro incontro senza sorridere: aveva raccolto i capelli a cespuglio in una coda e si era accuratamente sbarbato. Registrati quei cambiamenti senza batter ciglio, Osvaldo lo salutò, altrettanto serio. Buongiorno, Dottore. Come sta la signora?
Si sta riprendendo, è una donna forte. Ha subito un grosso trauma, non solo fisico. Spero che se ne ricordi, quando la interroga, disse Orso, severo, rivolgendosi al commissario.
Non dubiti, starò attento. Ma è necessario che le parli da solo, rispose Crisafulli, altrettanto deciso.
I due amici si scambiarono un’occhiata.
Va bene, disse Osvaldo. Che sia una cosa breve, però.
Entrarono in casa, mentre l’agente rimase vicino alla macchina.
Jole, seduta in poltrona, indossava una tuta di pile color lavanda, della sua taglia. Pallida, capelli sciolti, grandi occhi neri, cerchiati: nell’insieme, non priva di fascino. Orso si chinò su di lei con sollecitudine.
Il commissario vorrebbe farti qualche domanda, da solo. Noi andiamo di là… per qualunque problema, non hai che da chiamare.
I due uomini si chiusero alle spalle la porta della cucina.
Non avresti un po’ di quella tua birra? Chiese Osvaldo.
Nel frigo, rispose l’altro, distratto. Se quel tipo esagera e la fa agitare…
Sei preso bene, vedo.
Cosa?
Sei preso bene nel ruolo di custode e difensore.
Mi fa pena. Non tanto per il male che si è fatta, o per le notti in montagna… questo le passerà. Ma di quei due lei si fidava, uno l’aveva sposato.
Orso mise due bottiglie sul tavolo. La fronte aggrottata gli dava un aspetto feroce.
Nessuno può capirla meglio di me, mormorò fra i denti.
Un anno prima, la moglie lo aveva piantato in asso con un mare di debiti, contratti per soddisfare assurde pretese.
Osvaldo fece saltare i tappi e alzò una delle bottiglie.
A Jole.
Orso gli fece eco, toccando il vetro con la sua. Per un po’, assaporarono in silenzio l’amaro della birra.
Ti ha detto qualcosa? Chiese Osvaldo. Lo sai in che casino si è messa? Cos’è andata a scoperchiare?
Non so, ha parlato poco. Sai che sono andati a cercarla lassù? Il secondo giorno. L’avevano quasi trovata: se li è visti a poco più di un metro… è riuscita a star ferma, sotto un cespuglio, senza fiatare.
È una tosta, Jole, lo era già da bambina. Mi è spiaciuto che sposasse quel Faure. Ho sempre pensato che fosse un incapace, uno tutto fumo, ma non lo credevo un delinquente.
Non è facile capire come sono davvero le persone, anche quelle che crediamo di conoscere meglio.
In quel momento, la faccia rotonda di Crisafulli apparve nel vano della porta.
Tutto a posto, potete venire di là.
La signora ha confermato quanto già sospettavamo, continuò, quando furono intorno al tavolo del soggiorno. Sembra che si tratti di un traffico in grande stile. Leandro Faure e il suo amico, a quanto pare, gestivano la fase del passaggio dei migranti in Francia. Per un mucchio di denaro, ovviamente. La signora Jole ha sospettato qualcosa e, invece di venire da noi, è andata a vedere di persona…
A questo punto Jole si ribellò.
Non potevo certo andare a parlare dei miei sospetti alla polizia, senza esserne sicura! Era mio marito, e Fredo era un amico!
Capisco, ma ha corso un bel rischio. Dunque, nella cappella, alla borgata Faure, lei ha trovato un migrante, che non aveva potuto unirsi agli altri… uno del Bangladesh, vero?
Sì, era un ragazzo malato…
E neanche allora lei si è rivolta alle forze dell’ordine. Ha continuato a salire alle grange per diversi giorni…
La smetta! sbottò Orso. Non può parlarle come se avesse fatto chissà quale delitto! Si ricordi che la vittima è lei!
Lo so, caro dottore. Sto semplicemente elencando i fatti. Evidentemente la signora ha commesso un’imprudenza… anche se mossa da un senso di umanità. Purtroppo è stata notata. Alfredo Tron, stando a quello che dice, l’ha aggredita, deciso a eliminare una testimone pericolosa. E qui è intervenuto il ragazzo… probabilmente lo stesso ritrovato cadavere il giorno dopo.
L’ha ucciso! Gridò Jole. È morto, è morto al posto mio, capite? Aveva diciott’anni!
Orso e Osvaldo cercarono a fatica di calmarla, mentre il commissario, turbato, propose di sospendere il colloquio.
No! Non c’è tempo da perdere, lo ha detto anche lei. L’assassino è ancora libero e mio marito…
Le si ruppe la voce e si abbatté, piangendo, sulla spalla di Orso.
Voglio denunciarli… adesso… qui, subito! cincischiò tra le lacrime.
Il commissario si affacciò alla finestra.
Pasimeni, vieni su, porta tutt’e cose, disse all’agente che aspettava in cortile.

Circa un’ora dopo, Jole era esausta.
Ha fatto la cosa giusta, le disse Crisafulli, ritirando il modulo compilato e firmato.
Adesso cerchi di riposare. Prima di salutarla, però, voglio mostrarle una cosa.
Tolse dalla ventiquattrore una cartellina: dentro c’erano alcune fotografie e un biglietto spiegazzato, con una macchia scura.
Quel poveretto, quello che abbiamo trovato noi, aveva questa roba in tasca.
Jawahar mi aveva mostrato le foto, disse Jole, e le si incrinò la voce, mentre fra le ciglia le rispuntava una lacrima.
Questa è la sua famiglia, in Bangladesh, e questo è Ajar, il suo fratellino, partito con lui. Gliel’avevano affidato… adesso sarà in Francia, da solo.
Ricominciò a piangere, sommessa.
Sa dov’erano diretti?
In Normandia. Ci sono già i loro zii, lavorano in un’azienda agricola.
Il commissario osservò il biglietto, davanti e dietro.
Non si capisce cosa c’è scritto. Probabilmente è l’indirizzo.
Sarebbe possibile decifrarlo?
Forse sì. Ci penserà la scientifica.
E Jawahar, dov’è adesso? Dove l’avete portato?
All’ospedale di Susa, per l’autopsia… poi verrà disposta la sepoltura.
In una fossa senza nome… non è giusto! Io lo conoscevo, lui mi ha salvato la vita!
Ha ragione. Le prometto che farò quel che posso per trovare i suoi parenti. Ho qualche conoscenza tra i colleghi d’oltralpe.
E se pagassi io il funerale? Una tomba nel nostro cimitero?
Anche per questo il commissario assicurò che avrebbe fatto quanto in suo potere.

CAPITOLO 17

Mentre per Arianna le vicende di quei giorni si erano trasformate presto in un sogno confuso, Ettore era diventato triste e svogliato, passava il tempo in camera a sfogliare meccanicamente i Tex, fumetti ereditati dalla raccolta del padre,  ma la mente gli ripresentava ogni parola detta con gli amici. Quella frase: Chi parla è una spia e finirà all'inferno, lo faceva sentire a disagio. Aveva cercato di parlare con Lorenzo e Cloe ma entrambi si erano negati, Giulio gli aveva puntato contro le dita come corna e poi con la mano raccolta davanti alla bocca aveva fatto una serie di pernacchie che ancora risuonavano nelle sue orecchie. Lanciò il giornalino attraverso la stanza e nascose la testa sotto il cuscino cercando di ingoiare i singhiozzi, ma Arianna sentì un gemito e si avvicinò per consolarlo. Poi entrò la mamma per avvisare che sarebbe andata alla trattoria e per fare le solite raccomandazioni, ma, quando vide Ettore con gli occhi lucidi, capì che doveva farlo parlare, la situazione poteva farsi più grave. Ettore raccolse l'energia necessaria dalla mano calda che la mamma gli appoggiò sulla schiena, se per queste colpe doveva pagare, bene, avrebbe detto tutto, senza farsi sconti e senza piagnucolare.
Patrizia ebbe finalmente il quadro completo delle vicende drammatiche accadute sul territorio e dei pensieri che avevano  tanto turbato suo figlio. Ettore aveva disubbidito, pensò, avrebbe dovuto metterlo in punizione anche per aver messo in pericolo la sorella, ma si era dimostrato responsabile cercando aiuto in Gino Vallory. Avrebbe voluto abbracciare quel bambino che si era dimostrato giudizioso, invece gli ravviò i capelli scompigliati costringendolo a guardarla negli occhi.  
Hai fatto la cosa giusta e sei stato coraggioso, disse. Sono orgogliosa di te, ma se avessi parlato subito con me o con papà ti saresti  risparmiato questi tormenti. Vedrai che presto  anche i tuoi amici lo capiranno. Oggi venite in trattoria con me, svelti, portate il libro dei compiti delle vacanze, si comincia oggi, un'ora tutti i giorni e poi andate a giocare.

CAPITOLO 18

Sentite un po’ questo pezzo, disse Luciana, e incominciò a leggere ad alta voce da un grosso libro, un po’ sciupato.
Già a quell’epoca gli arabi non mancavano. Né i neri. Né i vietnamiti. Né gli armeni, i greci, i portoghesi. Ma non c’era problema. Il problema era sorto con la crisi economica. La disoccupazione. Più la disoccupazione aumentava, più si notava che c’erano gli immigrati… I francesi, il pane fresco, se l’erano mangiato tutto negli anni Settanta. E il pane secco volevano mangiarselo da soli. Non volevano che gliene venisse rubata neppure una briciola. Gli arabi, ecco cosa facevano, rubavano la miseria dai nostri piatti. I marsigliesi non pensavano veramente questo, ma gli avevano messo paura. Una paura vecchia come la storia della città, ma, questa volta, facevano una gran fatica a superarla. La paura gli impediva di pensare. Di rimettersi in questione, ancora una volta.
Che cos’è?
Casino totale, il primo noir della trilogia di Fabio Montale. Ci pensate? Izzo scriveva queste cose negli anni ’90, e adesso da noi c’è la stessa paura.
Nella quiete del primo pomeriggio, in giardino, le tre amiche si scambiavano impressioni sulle loro letture, mentre la solita brezza animava le chiome luccicanti delle betulle. Nelly, vicino allo sdraio della padrona, sembrava svenuta al sole: un’immagine di pace e fiducioso abbandono.
Tra loro, al contrario, dopo i fatti drammatici dei giorni precedenti, non c’era più spensieratezza: piuttosto un velo di malinconia, guardando le finestre di Jole, che per fortuna si era salvata, ma non avrebbe più avuto la sua vita di prima.
Ne avevano parlato a lungo, cercando di ragionare sul male che si era infiltrato in quel piccolo mondo, tra persone dall’apparenza cordiale e innocua, portando la morte, che faceva pensare inevitabilmente ad altre sofferenze, a migliaia di altre morti sconosciute.
Credete che li prenderanno? Chiese Luciana, chiudendo il libro. Il pensiero tornava sempre lì.
Probabile che siano già lontani, disse Francesca. Lo ha detto anche il commissario.
Alice sbuffò.
Quel piccoletto con la faccia da luna piena? Non mi sembra molto sveglio… continuava a chiederci sempre le stesse cose.
Chissà, invece…
Comunque, per agire in quel modo, dovevano avere un piano di fuga, ribadì Francesca. Sapevano di rischiare molto, se erano pronti a uccidere.
Anche Leandro? Secondo te, anche lui era d’accordo a uccidere la moglie?
Alice non voleva rassegnarsi, quell’idea le era insopportabile.
A un certo punto non è questione di essere d’accordo o di non esserlo. Certe organizzazioni non danno scampo. E questa dev’essere bella grossa: una rete che si allarga dal sud dell’Italia al nord, fino alla Francia e oltre…
Come l’hanno chiamata i poliziotti? Il Tour Operator dei clandestini.
Già quella parola mi fa orrore, disse Luciana alzandosi. Nelly la seguì in casa, da cui poco dopo la donna tornò, con una caraffa di limonata fredda e tre bicchieri.
Volete rinfrescarvi? È il primo giorno che fa davvero caldo.
Ormai è luglio. Grazie, proprio quello che ci vuole, disse Alice servendo le altre.
E se più tardi andassimo a trovare Jole? A vedere come sta?
Ma non hai sentito quel che ha detto Osvaldo? Non è prudente, finché quei due sono ancora in giro. Potrebbero seguirci.
Uffa, Luciana, ma se poco fa avete detto che sono scappati!
Senti, non ne siamo sicure. L’unica è restare qui e tener d’occhio la casa, come abbiamo promesso al commissario.
Possiamo sempre interrogare i tarocchi, suggerì Francesca con un risolino.
I De Menech stanno ancora più sprangati. Devono avere una fifa becca… Comunque sono loro gli ultimi ad aver visto Fredo e Leandro, due sere fa. Era quasi buio, e li hanno visti andar via col fuoristrada, equipaggiati come per una battuta di caccia.
Cercavano Jole, disse Luciana. Ormai sapranno che è stata trovata.
E chi gliel’avrebbe detto?
Qui parlano anche i sassi…
Le tre amiche convennero che dovevano essere prudenti. Erano le sole, oltre a Gino e Osvaldo, e naturalmente alla polizia, a conoscere il nascondiglio di Jole.
Era meglio che la cosa non cambiasse.
Almeno finché Jole non decida di tornare, osservò Alice.
Tornare dove? Alla sua bella casetta? Dal maritino?
 Serpeggiava nervosismo.

CAPITOLO 19

Dal venerdì sera a domenica a pranzo la trattoria era al completo. I villeggianti raggiungevano la montagna, dopo il lavoro in città, ben determinati a sfruttare al massimo il fine settimana. Alcuni prenotavano un tavolo già dalla volta precedente, altri telefonavano dall'auto mentre salivano in valle, e poi qualcuno arrivava senza prenotazione, con occhi supplichevoli. Patrizia era gentile e si faceva in quattro per sistemare gli avventori in ogni angolo della sala da pranzo. Poi lasciava il marito in sala ed entrava in cucina e là, affondando le mani in qualche impasto, ripeteva come per sé, ma a voce relativamente alta, che era più facile trattare coi bambini che con gli adulti.
Non vedo l'ora che ricominci la scuola per tornare al mio lavoro, bofonchiava.
Ma, in fondo, sapeva di essere fortunata. Se pensava alle sue amiche d’infanzia, qualcuna era emigrata in Inghilterra e aveva finito per fare la cameriera nelle pizzerie o nei fast food, altre si erano separate poco dopo il matrimonio, altre non avevano potuto aver figli. Lei aveva tutto: un marito un po' ruvido ma che l’amava, due lavori appassionanti, era maestra di ruolo e d'estate aiutava in cucina nella trattoria dei suoceri. Non le mancavano certo i soldi per divertirsi, piuttosto le mancava il tempo per farlo. Aveva due figli meravigliosi, peccato doverli lasciare a casa da soli per lavorare in trattoria, ma non avrebbero potuto assumere un aiutante, non ancora. In città, sarebbe stato più pericoloso, pensava, qui nella borgata ci conosciamo tutti e i bambini sono controllati dagli adulti, non può succedere niente di brutto, al massimo un ginocchio sbucciato.
Aveva pensieri come questi Patrizia, mentre Arianna, a casa, stava  piantando una pista insopportabile col fratello: voleva a tutti i costi rivedere un'altra volta il film  La Sirenetta.
Lo sai a memoria, si era lamentato Ettore, io voglio vedere Spider-man.
No, continuava a ripetere lei, testarda, voglio la Sirenetta!
Ettore era molto disponibile con la sorella, ma certe volte, come questa, avrebbe preferito un fratello con cui  giocare. Quel visino imbronciato con gli occhi brillanti di lacrime trattenute, però, gli faceva tenerezza.
E va bene, disse, é l'ultima volta, e infilò il dvd nel lettore.
Dopo un paio di minuti, già annoiato, uscì in cortile: il sole era tramontato da un pezzo e i lampioni mandavano una luce calda, rassicurante. Che fare mentre la sirenetta  ripeteva il racconto delle sue disgrazie? Si allontanò lungo la via principale e, arrivato sotto le finestre dei Faure, alzò lo sguardo. La casa sembrava disabitata, completamente silenziosa. Pensò di arrivare da Osvaldo, salutare il cane delle signore e poi tornare da Arianna, quando sentì scattare una serratura. Jole, pensò felice il bambino, ma la persona che si afffacciò a controllare la strada era Leandro. Ettore, deluso, restò fermo dietro alla siepe. Avrebbe voluto farsi avanti e chiedergli notizie della moglie, ma l'atteggiamento dell'uomo gli consigliò di aspettare. Aveva un borsone scuro, così pesante che, per trasportarlo, dovette, con fatica, caricarselo sulle spalle e camminare un po' curvo. Ettore lo vide incamminarsi a piedi e solo allora notò che nel parcheggio non c'era la sua auto. Pensò di seguirlo, ma a distanza: quell'uomo non gli piaceva, non gli rivolgeva mai la parola e non l'aveva mai visto sorridere o scherzare. Che ci faceva in giro a piedi, lui, che non si spostava così neppure per andare alla segheria, distante solo cinque minuti a passo tranquillo? Ettore aspettò nell'ombra della siepe, poi, rasentando le recinzioni, lo seguì a distanza di sicurezza, pronto a scappare di corsa, se Leandro, voltandosi indietro e scorgendolo, si fosse avvicinato minaccioso. Lo vide attraversare la statale, dirigersi verso la segheria, posare a terra il borsone e aprire il cancello.
Chissà cosa c'era in quel borsone da palestra? La fantasia del bambino inziò a darsi da fare: ricordò certi film polizieschi, visti di straforo in tivù prima che papà mettesse il blocco ai canali. Nei borsoni di quei film ci sono armi, droga, cadaveri, tutte cose terribili, e l'agitazione sale fino a trasformarsi in una paura nera, che lo spinge a correre veloce verso casa. In due minuti sarebbe stato al sicuro sul divano, davanti alla sirenetta dai colori pastello, forse meno di due minuti, ma quasi si scontrò con Osvaldo che usciva a buttare la spazzatura nei bidoni collettivi della differenziata. Non l'aveva neppure riconosciuto, tanta era l'agitazione che lo spingeva, e se n'era accorto anche Osvaldo che l'aveva visto fiondarsi a testa bassa come un toro infuriato e l'aveva bloccato al volo con un “Ehi, hai visto lo yeti?” Quella voce amica l'aveva frenato e, a frasi spezzate da colpi di tosse e sospiri,  aveva raccontato di Leandro, del suo borsone, e delle sue paure, e che doveva tornare da Arianna.
Osvaldo lo portò in casa.
Andiamo subito a telefonare alla polizia, disse, poi torni da tua sorella, se hai paura ti accompagno io.
Le signore stavano prendendo il caffè, la tavola era ancora ingombra dei resti della cena; gli offrirono un cioccolatino, ma Ettore rifiutò con un cenno del capo e ristette dritto come un baccalà con gli occhi incollati su Osvaldo che parlava al telefono.
Leandro Faure è tornato e in questo momento è in segheria. Me l’ha detto Ettore Francou, l’ha appena visto. E' un ragazzo coraggioso, disse chiudendo la telefonata.
Torno subito, aggiunse, lasciando le tre amiche senza parole, e uscì seguito dal bambino e dal cane.

CAPITOLO 20

Leandro chiuse le tende oscuranti, prima di accendere la luce, poi spostò lo schedario dell’Ikea che nascondeva la cassaforte.
Trovò quello che cercava, mazzette di banconote e documenti falsi, che lui e Fredo avevano avuto il buon senso di procurarsi, appena entrati nell’affare dei migranti, caso mai qualcosa fosse andato storto. Mise tutto nel borsone, con le cose portate da casa, poi tolse dal portafoglio la carta d’identità e la lasciò in un cassetto della scrivania, insieme al suo passaporto. Addio Leandro Faure.
Un sorriso amaro gl’increspò le labbra, mentre gli balenavano in mente le fantasie fatte da ragazzo: partire, imbarcarsi su un cargo, all’avventura, lontano dalla valle e da suo padre. Col tempo, invece, aveva scoperto i vantaggi di essere il figlio di Faure. Chi l’avrebbe detto che un giorno avrebbe mandato tutto in malora. Guardò l’orologio: quasi le undici. Fredo doveva essere arrivato da un pezzo a casa della sua amica.
Mi faccio imprestare la macchina da Tiziana, aveva detto, meglio non usare una delle nostre. Guarda che ci metterò un po’: per convincerla ci vorranno due moine…
Aveva fatto un piccolo schiocco tra denti e palato, un suo vezzo, che voleva dire “ci penso io” e anche “io ci so fare”.
Coglione… Basta che arrivi in tempo per andare dal rumeno.
Si erano accordati con un camionista, che a mezzanotte li avrebbe prelevati al casello di Oulx, per portarli oltre confine, ma non qui, a pochi chilometri da casa. In Croazia, per il momento. Poi chissà.
Leandro aprì un armadio alle sue spalle, alla ricerca di conforto. Il primo sorso di Chivas gli andò dritto al cervello. Erano mesi che non beveva: sapeva di dover restare lucido, per giocare quella partita. Non ne aveva mai giocata una tanto pericolosa. Purtroppo non aveva avuto altre possibilità.
Sarà questione di poco, si era detto per farsi coraggio, quel che serve a pagare i debiti e rimettermi in piedi, poi da questo giro mi tiro fuori.
Non era andata come credeva. Proprio per niente. Quelli ormai li tenevano in pugno, li muovevano come burattini. E Fredo… Fredo era un pazzo. Un assassino. Stupido lui, a non capire fin da subito cosa implicasse il gioco.
Lo aveva capito lassù, sul ghiaione, mentre cercavano Jole: Fredo si era portato i cani, aveva anche il fucile. Lui aveva cercato di precederlo, era arrivato per primo a una macchia di rododendri e, sotto il fogliame, aveva intravisto del rosso. Aveva gridato che Jole non c’era. Si vedrebbe subito, se fosse qui, andiamo via.
Fredo gli aveva dato retta: il pendio era ripido, il terreno brutto, per i cani.
Come sarebbe andata, in caso contrario, Leandro era contento di non saperlo.
Bevve un altro sorso, più lungo, e si lasciò andare contro lo schienale della sedia girevole. Aveva dovuto lasciarla là sotto, acquattata tra i rododendri come un animale… Il mattino dopo, aveva detto a Fredo che lo aspettavano in banca.
Ho cose urgenti da mettere a posto, prima di sloggiare.
Ci era andato davvero, aveva prelevato quanto poteva e aveva girato il resto sul conto della moglie. Poi, senza farsi vedere, era tornato al ghiaione, da solo.
Sotto i cespugli Jole non c’era. Aveva perlustrato la pietraia fino in fondo, e stava incominciando a pensare di essersi sbagliato, quando, vicino a una vena d’acqua, aveva visto dei fazzoletti di carta, sporchi di sangue. Jole era stata lì, non molto tempo prima: ferita ma viva, in grado di muoversi. Di sicuro aveva aspettato che loro due si allontanassero, per strisciare fuori dal nascondiglio. Quasi gli pareva di vederla. Si rese conto – e ne restò tramortito – che Jole non lo avrebbe mai perdonato. Mai più.
Il fatto che di lei non ci fosse traccia, a parte quei pezzetti di carta, faceva pensare che qualcuno l’avesse aiutata, l’avesse caricata su una macchina.
Eppure non si era saputo niente del suo ritrovamento, neanche il giorno dopo. Nessuno era venuto ad arrestarlo.
Poi le cose erano precipitate. Non era solo della polizia, che lui e Fredo dovevano preoccuparsi. Ormai vivevano come barboni, dormendo all’aperto, in posti da lupi: troppo rischioso farsi vedere in giro, e ancor di più restare in casa. Ci aveva fatto giusto un salto quella sera, con mille cautele.
Tutto era pronto: di lì a poco sarebbero spariti.

Leandro girò gli occhi nella stanza foderata di abete, che aveva visto suo padre realizzare l’impresa, cresciuta grazie alla ferrea disciplina che imponeva a sé stesso, prima che a dipendenti e familiari. Alle pareti, alcune foto a colori rappresentavano progetti più recenti, grandi costruzioni in legno lamellare, a cui Leandro si era dedicato nei primi tempi, dopo aver preso il timone della baracca.
Sugli scaffali, c’erano le coppe che aveva vinto da ragazzo, nelle gare di sci,  accanto a quelle di Jole, più numerose. Acqua passata.
Si versò ancora un goccio, poi spense la luce e scostò la tenda. Sulla statale, a quell’ora, giravano poche macchine. I fari si vedevano di lontano. Ogni volta Leandro tratteneva il fiato, aspettando che una Clio si accostasse al cancello.
Invece, furono tre auto scure a fermarsi a bordo strada.
La polizia. Si ritrasse nell’ombra, il cuore gli martellava nel petto.
Qualcuno deve avermi seguito. Che fare? Fuggire a piedi è impossibile. Avrebbe senso nascondersi? Comunque, ci metterebbero poco a entrare e sfondare la porta.
E Fredo? L’avranno già beccato? Ma no, no… lui se la cava sempre… anche stavolta, se non mi faccio prendere, scivolerà via… I poliziotti, tutti impegnati con quel cazzo di porta, neanche lo vedranno…
Strinse il bicchiere che non ricordava di avere in mano, fino a mandarlo in pezzi. Il whisky sulla pelle lacerata lo fece trasalire, ma il bruciore gli schiarì la mente.
Uscì nella notte e azionò il telecomando.
Le auto entrarono in cortile e si spostarono dietro al capannone, mentre Crisafulli varcava il cancello a piedi. Leandro raddrizzò le spalle e gli andò incontro, pallido, apparentemente calmo.
Avete trovato mia moglie? Come sta?
Che marito premuroso, ironizzò il commissario, facendo un passo avanti.
È una donna forte, per fortuna. Ha passato due giorni e due notti terribili… è ferita, ma si riprenderà. Ha sporto denuncia contro Alfredo Tron e contro di lei. Dov’è il suo amico?
Sta per arrivare, lo stavo aspettando.
Allora è meglio se mi fa entrare: lo aspetteremo insieme.
Leandro rientrò in ufficio senza opporre resistenza, seguito da Crisafulli che si chiuse la porta alle spalle. Nella stanza filtrava un po’ chiarore dall’esterno, attraverso la finestra.
E adesso?
Adesso, quando l’amico arriva, lei gli va incontro, proprio come avrebbe fatto. Niente scherzi.
Ma le pare? A questo punto…
Gli tremò la voce, ma si sforzò di dominarsi e cercò l’intonazione confidenziale e persuasiva che usava coi clienti importanti.
Signor commissario, io ne ho fatte, nella vita, di cose sbagliate… ma, mi creda, non ho ucciso nessuno. E poi, non sono uno che fa del male alle donne.
Fece una pausa prima di aggiungere: A Jole non ne avrei mai fatto.
Crisafulli girò verso di lui la testa calva e un po’ lucida.
Già, ma vede… gliene ha fatto moltissimo, in realtà.
Erano uno di fianco all’altro, davanti alla finestra, e Leandro, vicino a quell’ometto, si sentì piccolo e disprezzabile.
Poi la ghiaia scricchiolò e la Clio si fermò nel piazzale.

CAPITOLO 21

Ormai era la fine di agosto; la villeggiatura, che inizialmente doveva essere tranquilla, si era trasformata in una vacanza movimentata, con sconvolgenti traversie. Le tre amiche erano entrate in contatto con persone malvagie, altre si erano rivelate sensibili, altre ancora avevano dimostrato determinazione e coraggio. All’inizio del mese, totalmente coinvolte nella vicenda, erano partite con Osvaldo per il Nord della Francia, alla ricerca dei parenti di Ajar. Non sapevano che il ragazzino era rimasto a Briançon, presso un’associazione, in attesa che un suo parente potesse venire a prenderlo. Questo era avvenuto, grazie a loro. Jole e Orso, poi, si erano incaricati di riportare Ajar e lo zio in Normandia.
Dopo il viaggio, le tre donne erano tornate nella casa di montagna che Osvaldo aveva lasciato a loro disposizione e ora si preparavano a lasciarla per tornare in città. Luciana uscì sul balcone per scuotere un tappeto e istintivamente girò lo sguardo verso l’appartamento chiuso. Rientrò e le sfuggì un sospiro.
Chissà dove sarà Jole adesso?                                                                                                                                                                                                      Sarà quasi in Normandia, disse Francesca. Senz’altro, occuparsi del ragazzo le farà bene.
Risollevarsi dalla batosta sarà dura per lei, riprese Luciana. Ci vorrà del tempo. E poi ci sarà anche il processo, dovrà testimoniare, Troppe ferite… e quelle dell’anima fanno più fatica a rimarginarsi. Meno male che Orso è con lei.
Alice seguiva il discorso, mentre asciugava lo specchio del bagno.
Secondo me, è la persona giusta per farle recuperare le forze e lo spirito: è di poche parole, ma la sua presenza è stata fondamentale. Ha usato le sue ferie per accompagnarla in Francia. Non l’ha mai lasciata sola. Per me sono più affidabili le persone come lui, piuttosto che i tipi che fanno tante smancerie.                                                                                                       
Francesca finì di raccogliere con scopa e paletta la polvere dal pavimento, si sedette sul letto e aggiunse:
Be’, lui non era del tutto disinteressato. Noi invece sì. Quando ancora Jole non stava bene, ed era tanto in pena per Ajar, abbiamo deciso di partire per rintracciarlo, e Osvaldo si è offerto di accompagnarci.
Non è stato certo un sacrificio, disse Luciana. Tutte le occasioni sono buone per partire!
Del resto eravamo d’accordo, confermò Alice.                                                                                                                                                                         Terminate le pulizie al piano di sopra, scesero in cucina. Luciana aprì il frigorifero e si consultò con Francesca per cucinare un pranzetto veloce. Come al solito Alice, preferì occuparsi di preparare tavola e condire l’insalata. Il  loro pensiero tornava sempre alla fattoria nel nord della Francia, dove lavoravano gli zii di Ajar. Fu Luciana a riprendere il filo.
Ricordate quanti giri abbiamo fatto per trovare quel posto? Quanto abbiamo vagato per quelle stradine in mezzo ai campi, senza incontrare nessuno…
La scientifica aveva decifrato l’indirizzo e Crisafulli lo aveva dato a Jole: Ferme des moulins, Tracy-sur-Mer.  Ma il navigatore non ne sapeva niente.  
Invece poi ci hanno fatto una grande accoglienza, ricordò Alice. Com’è bella e ben organizzata la fattoria di M.er Jaques, e quanti animali!                                                                            E i bengalesi? Sono rimasti di stucco quando hanno capito che eravamo venuti dall’Italia per portare notizie dei loro nipoti…  
E che pena quando abbiamo parlato di Jawahar, aggiunse Francesca.
Qui le amiche, per un attimo, rimasero in silenzio. Tutte e tre avevano gli occhi lucidi. Dopo un po’ Luciana riprese a occuparsi del sugo, Francesca dei resti di formaggio da mettere in tavola e Alice a sistemare le posate vicino ai piatti. 
Almeno Ajar ce l’ha fatta. Monsieur Jaques ha garantito che il ragazzo sarà accolto nella ferme.                                                                                          Stavano mangiando la pasta, quando Luciana posò la forchetta e guardò le amiche sorridendo.
Sapete, ragazze, ho fatto una bella pensata. Avrei deciso di lasciare Nelly a Ettore per un po’ di tempo. Ho visto che la cagnetta qui sta molto meglio che nel mio appartamento a Torino, con lui potrà giocare, tanto presto tornerò su. Francesca e Alice si guardarono ammiccando.
Ieri pomeriggio, mentre voi stavate leggendo, sono andata alla trattoria e ho parlato coi Francou. Loro sarebbero d’accordo, per far contento Ettore. Se l’è meritato.
Sarà felicissimo, disse Alice. Si sono piaciuti subito quei due.
Quindi, presto tornerai su, disse Francesca. Non da sola, scommetto.

CAPITOLO 22

Sembra impossibile che tra una settimana incominci la scuola. Le giornate sono ancora belle, anche se nei prati ci sono dei fiori lilla che mia sorella chiama freddoline, e quando ci sono quelle lì vuole dire che l’estate è finita.
Ormai sono andati via tutti.
Le tre del pomeriggio: ho preso la bici, sto provando dei numeri in cortile, come stare in equilibrio da fermo, ma senza gli amici non c’è gusto. Arianna, seduta in fondo alla scala, gioca con quella stupida Barbie, neanche mi vede.
Riprendo a girare, impennando ogni volta che le passo davanti, e mi tocca fare uno scarto per evitare Luciana, uscita con un borsone.
Le chiedo se stanno partendo anche loro.
Sì, siamo quasi pronte, risponde. Hai voglia di darci una mano?
Ne hanno di bagagli, le signore. Tra zaini, valigie e roba da mangiare, in macchina staranno pigiate come sardine.
E Nelly dove la mettete?
Come se l’avessi chiamata, la cagnetta mi corre incontro, facendomi le feste. Lascio a terra la bici e mi chino ad accarezzarla. Sento già un groppo in gola.
Ci stavo pensando, dice Luciana. Qui sta così bene… molto meglio che in città.
Poi mi guarda e sorride, senza parlare. Che cos’avrà in mente?
Ti piacerebbe tenerla per un po’?
Non riesco a risponderle, ho paura di non aver capito, non può essere che mi tocchi tanta fortuna… e poi, anche se fosse, mi sembra già di sentire mia madre, dirà che non posso perdere tempo, tra poco vado alle medie.
Con la faccia mezza affondata nel pelo di Nelly, mi faccio coraggio e cerco di spiegarlo a Luciana. E quella matta si mette a ridere.
Ti pare che te l’avrei chiesto, senza parlarne prima con i tuoi?
Non è possibile. Scopro che sanno già tutto e sono pure d’accordo: papà, come se niente fosse, esce dalla cantina con la casetta di legno di quando eravamo piccoli.
Cosa ne dici? A Nelly piacerà, come cuccia?
Forse, se ci giochiamo insieme… ma non dovrà stare sempre fuori, vero?
Be’, poi vedremo.
È uscita anche la mamma, corro ad abbracciarla e lei mi guarda, seria.
Ne sarai responsabile tu, finché non torna Luciana. Sei abbastanza grande, per occuparti di lei… Insomma, te lo sei meritato.
Questo non me lo aspettavo. Non è una che fa complimenti, Patrizia Francou, e poi, non così, davanti a tutti: non so da che parte guardare, mi piacerebbe saltare in bici e scappar via, con Nelly naturalmente, ma devo salutare le signore e ringraziare Luciana, chissà per quanto tempo lascerà qui la sua cagnolina.
Ci vedremo presto, assicura. Verrò su con Osvaldo. Tu falla correre, mi raccomando! Se no ingrassa, golosa com’è.
Prima di salire in macchina, mi consegna il guinzaglio. Nelly la guarda, piegando la testa da una parte, poi guarda me: non vede l’ora di andare a spasso.

È la nostra prima passeggiata lungo il torrente. Arianna insiste per tenere Nelly legata, mentre io vorrei farla divertire.
Dai, lasciala, adesso! Non vedi che vuole correre?
E se scappa? Se la chiami e non torna?
Lanciale un rametto, vedrai che te lo porta.
Giochiamo così per mezz’ora e Nelly si scatena avanti e indietro, sembra proprio contenta di stare con noi. Quando si sarà abituata e si fiderà del tutto, vorrei portarla fino al grande tiglio, oppure su al forte. Faremo delle vere esplorazioni…
Paura non ne ho. Lo scuro del bosco fa effetto ai bambini e, dopo quest’estate, mi sembra cambiata anche la paura.
A volte penso a quel ragazzo, Ajar. Avrà la mia età, o poco di più, e si è trovato solo in un paese straniero, senza nessuno dei suoi. Per una cosa come quella, sì che me la farei sotto. Dev’essere in gamba, Ajar, mi piacerebbe conoscerlo.
Magari, se lo chiedo a Osvaldo, un giorno mi ci porta.

Autori: Rossana Aletto | Lucia Berardi | Elisa Gallina
Data: 14 gen 2020