RACCONTO LUNGO UN SECOLO - ULTIMA PARTE

24.  IL PERIODO BUIO
Il traguardo raggiunto era motivo di grande soddisfazione per Lucrezia: ogni giorno cercava di dare il meglio a bambini e ragazzi del posto, figli di contadini e ricchi solo di buona volontà.
Ma quella tranquillità operosa durò pochi anni: una grande guerra venne a sconvolgere anche il piccolo paese di Pizzotano e molti dei giovani a cui Lucrezia dava lezione dovettero partire per il fronte. Rimasero in paese solo madri e mogli sconsolate, vecchi e i figli troppo piccoli per imbracciare le armi. Tante famiglie già provate dalla povertà divennero ancora più infelici per i lutti provocati dalla guerra. In quei tre anni, furono numerose le lettere che Lucrezia e don Luigi dovettero leggere, prima di dar notizia della scomparsa o della morte di un figlio o di un marito. Furono gli anni che sconvolsero il mondo e gli equilibri dei popoli. A Pizzotano furono pochi i giovani a tornare alle loro famiglie: erano diventati uomini tra fucili, baionette, mitragliatrici e colpi di artiglieria, ma ora bisognava riprendere a vivere e si cercò in ogni modo di ricostruire ciò che si era perduto.
Lucrezia, con l’aiuto di Felicita, ormai in età avanzata, aveva fatto della sua casa un punto d’incontro e accoglienza per i bambini più piccoli, mentre le madri andavano in campagna. Qualche lettura continuava anche la sera, per togliere la malinconia di quel periodo.
Tutto era iniziato nel maggio del 1915, per finire quasi alla fine del ‘18, ma anche allora nulla era terminato, perché pochi mesi più tardi si era diffusa una tremenda malattia, che trovando la popolazione in condizione di debolezza e prostrazione, dovute alla guerra, era arrivata persino a Pizzotano: l’influenza spagnola, così chiamata perché si pensava venisse dalla Spagna, si manifestava con un lieve catarro, stanchezza e vaghi dolori in tutto il corpo, fino a una tosse stizzosa e perdite di sangue dal naso, con bronchite e polmonite.
Fu proprio questa malattia a portarsi via Felicita, nella primavera del 1919. A nulla valsero le cure del medico e il chinino che Lucrezia, con l’aiuto della contessa, aveva fatto arrivare da Napoli.
Dopo molto tempo, Lucrezia ritornava a una sofferenza interiore che ora nessuno avrebbe potuto consolare: evitava d’incontrare persino i suoi ragazzi, si sentiva “vuota dentro”, con la frustrazione di non riuscire a portare a termine nessun impegno.
Quando don Luigi cercava di scuoterla, lei rispondeva di non avere più la forza di fare progetti e sperare nel futuro. La depressione la portava solo rinvangare il proprio vissuto.
Don Luigi scrisse alla contessa Amodei, per avere un aiuto, ed ella rispose con una lettera. 

Posillipo 24 novembre 1920 
Reverendissimo parroco,
sono costernata dalle brutte notizie che riguardano la mia amica Lucrezia. Da molto non ho ricevuto un suo scritto: questo mi dava dispiacere, ma non immaginavo che la solitudine l’avesse portata a condizioni di salute così preoccupanti. Mi spiace terribilmente; proverò a parlarne con mio marito, per cercare di organizzare un suo soggiorno presso di noi, per avere pareri da medici specialisti.
Io purtroppo non riesco a muovermi da casa: gli affari di mio marito, gli impegni con i figli e i nipoti, e ultimamente anche le mie condizioni di salute, sono diventati una priorità. Non posso più gestire la mia vita e i miei spostamenti come quando ero giovane: ora dipendo anch’io da molte persone. Ma, le ripeto, sono addolorata per la mia amica e farò di tutto per averla qui con noi.
Vi ringrazio intanto per ciò che riuscirete a fare nel frattempo. Vi invio del denaro per le spese a sostegno di Lucrezia e anche per la parrocchia: gestitelo per le necessità che riterrete opportune, e per qualsiasi cosa tenetemi al corrente.
Aspetto vostre notizie e spero di darne a voi al più presto. Ringraziandovi per il vostro interessamento, vi saluto e mando un abbraccio alla mia amica Lucrezia.
Con profonda stima                
Maria Elvira Alberti di Soriani in Amodei 

25. L’IMPEGNO DI DON LUIGI
Poche righe del conte su un telegramma, alcune settimane dopo, avvisavano don Luigi dell’arrivo a Pizzotano del collaboratore dell’Amodei, accompagnato dal cappellano medico don Rivelli che gestiva vari istituti caritativi ed educativi, dove venivano raccolti gli esposti alla ruota (bambini abbandonati appena nati). In questi istituti, i maschi erano mantenuti fino agli otto anni, quindi erano mandarli in bottega o in seminario, mentre le femmine potevano rimanere fino ai diciotto anni, ed erano destinate al matrimonio o a diventare suore. Quelle che si sposavano, tuttavia, tornavano alla casa in veste di balie, per il rapporto di appartenenza e di gratitudine che le legava per sempre al collegio. I due uomini sarebbero venuti per accompagnare Lucrezia al centro ospedaliero; il conte aveva assicurato che in quell’ambiente, voluto soprattutto da Elvira, Lucrezia sarebbe stata in ottime mani: era il posto giusto dove curare la sua depressione, aiutata da medici esperti e da suore caritatevoli.
“È importante che ti curi, figlia mia!” Aveva detto don Luigi alla signorina Lucrezia, “La gente del paese ha ancora bisogno del tuo aiuto, ne ho bisogno io stesso. I ragazzi si affidano al tuo insegnamento, non possiamo deluderli! Dio sarà la tua forza e io pregherò per te, affinché ritorni presto a casa e noi saremo qui ad aspettarti.”
Lucrezia aveva accettato di buon grado i consigli di don Luigi, e così ancora una volta ritornava a Napoli. Il viaggio fu alquanto tranquillo, il dottore, don Rivelli, era premuroso e disponibile. 
Per l’educazione e l’assistenza degli ospiti del collegio, oltre alle suore, vi erano anche istitutrici laiche, che avviavano le ragazze a lavori di ricamo e confezioni di arredi liturgici.
A Lucrezia, dopo un primo periodo di adattamento, fu chesto di aiutare le istitutrici nelle varie attività. “Non tutto ti sembrerà perfetto,” aveva affermato don Rivelli durante un loro incontro “ma guai a chi attende opere perfette, per cominciare a fare del bene. Dio si giova anche dell’imperfezione nostra e altrui, per questo dispensa molta grazia al mondo.”
Lucrezia si convinse che la sua debolezza poteva avvicinarla agli altri, e di lì iniziò la sua risalita. Intanto in paese, nonostante le rassicurazioni di don Luigi sulla salute della signorina, si vociferava che donna Lucrezia fosse finita in manicomio. Le malelingue raccontavano persino che don Luigi si fosse impadronito delle sue proprietà e che non l’avrebbe mai fatta ritornare. La generosità e l’abnegazione dimostrate dal parroco durante la guerra furono ben presto dimenticate: tra i fedeli iniziò a covare il malcontento. Certo della sua buona fede e avvalendosi della sua dottrina, il prete, nelle omelie domenicali, inveiva dal pulpito contro le menzogne e i pettegolezzi, deplorando con impeto il comportamento di quei fedeli che frequentavano la chiesa, ma che nei fatti venivano meno ai principi morali e cristiani. Continuò così il suo operato senza farsi intimidire.
Il malcontento popolare cessò quando la primavera si apriva all’estate e donna Lucrezia ritornò tra la sua gente: bastò la sua vista a far tacere le calunnie contro don Luigi, di cui lei, per volere dello stesso, non venne mai a conoscenza.
 

CAP 26. NUOVA VISIONE
Nel breve periodo trascorso all’istituto, Lucrezia aveva conosciuto varie situazioni traumatiche dei figli abbandonati; si era trovata a gestire sentimenti intensi come la rabbia, la paura, l’aggressività, di cui molti bambini erano protagonisti.
Quell’esperienza le aveva insegnato che per aiutare gli altri doveva prima di tutto riparare la sua fragilità emotiva: il desiderio di riuscirci la portò a emergere gradualmente dalla depressione.
Elvira era venuta spesso a trovarla in collegio, non le aveva fatto mancare riviste d’arte e letteratura. In questo modo Lucrezia aveva potuto aggiornarsi sui nuovi movimenti letterari e sul rinnovamento culturale del dopoguerra.
Negli anni Venti, stavano incominciando a cambiare molte prospettive, soprattutto per le donne. Fu con questa nuova visione di emancipazione che, al suo ritorno a Pizzotano, Lucrezia decise di dedicarsi a migliorare la condizione delle contadine.
Molte donne, che si sposavano unicamente per la dote, dovevano poi lavorare nei campi dal mattino alla sera, anche quando erano avanti nella gravidanza.
Donne e fanciulle, curve sotto carichi immani di fasci di paglia, di stoppie e di ceste riempite dei prodotti della terra, ogni sera rientravano in paese dalla campagna, disfatte nel volto grondante di sudore, ma erette nel busto e nella nuca per il pressante peso sulla testa, protetta dalla crona (corona di stoffa).
A casa c’erano i figli da sfamare, e il più delle volte dovevano anche comprare il tabacco e il vino per l’uomo, se questi non aveva ottenuto la giornata di lavoro.
Quando non lavoravano nei campi per il maltempo, molte di loro trascorrevano la monotona giornata nella desolante solitudine in cui le aveva lasciate il marito, che non molto prima di accasarsi o subito dopo, si era rifornito di passaporto, attratto dal miraggio della ricchezza in America. Così, mentre lei rimaneva fedele, nella struggente e talora inutile attesa del marito, lui si dimenticava del tutto della moglie e dei figli, che dovevano cavarsela da soli.
Lucrezia fece di tutto per ritornare alle vecchie abitudini: riprese pennelli e cavalletto, ritornò sulla sua altura per dipingere; riprese anche le letture serali, portando a conoscenza delle sue compaesane storie di donne coraggiose, piene di energia e di passione, che avevano saputo realizzarsi in campi diversi, riscattandosi dalla sudditanza.
Ma quelle letture non vennero viste di buon occhio: a dire dei mariti, montavano la testa alle mogli, così molte donne furono costrette a disertare le serate d’incontro all’oratorio. A nulla valse l’intervento di don Luigi, che difendeva la buona fede della signorina. In seguito, il parroco dovette sospendere l’attività, perché non solo le mogli non venivano più alle serate, ma anche i figli e i vecchi, che siccome dipendevano dai più giovani non volevano contrariarseli.
Lucrezia ritornò alla solitudine e ai suoi ricordi, ma don Luigi sapeva perfettamente che non era la giusta soluzione per lei.
In quell’anno si erano sposati Francesca Amelia e Giovanni Fedele, che in due non facevano l’età di donna Lucrezia, ed erano venuti ad abitare di rimpetto alla sua casa.
Don Luigi consigliò alla signorina di farsi aiutare da Francesca nelle faccende, per avere compagnia e dare un sostegno ai giovani sposi: essi vivevano solo della poca terra avuta in dote dalla mamma di Giovanni, con quella casetta di sole due stanze.
Lucrezia si disse felice di poter avere Francesca come aiuto, e la ragazza ne fu entusiasta, d’altronde Lucrezia le aveva insegnato a leggere e a scrivere. Nonostante la sua giovane età, s’impegnò molto e la signorina fu contenta di lei. Giovanni, nel frattempo, lavorava il carbone, lo caricava poi sull’asino per andare a venderlo nei paesi limitrofi. Francesca, esile e delicata nel corpo, ma con i colori della salute sul viso, diventò l’ombra di donna Lucrezia. Ogni cosa da fare insieme diventava per entrambe un sollievo: cucinavano, pregavano e quando donna Lucrezia leggeva ad alta voce Francesca si fermava ad ascoltarla.
Pochi mesi dopo, la giovane sposa rimase incinta: la signorina disfò persino il suo corredo per crearne uno nuovo al prossimo nascituro. Giovanni rientrava ogni giorno a tarda ora, così Francesca tornava a casa solo dopo aver recitato i vespri, al tocco delle campane.
Donna Lucrezia sembrava riprendersi dalla sua depressione e don Luigi cercò di coinvolgerla nei lavori di restauro della chiesa parrocchiale: il soffitto in legno della navata centrale, a riquadri ottagonali con affreschi arabeschi, doveva ritornare al suo splendore, come la facciata esterna con i tre ingressi. Il vecchio orologio a sei rintocchi, situato al centro del campanile, doveva essere sostituito. I lavori vennero affidati all’architetto Giulio Rideco, di un paese vicino, per volere del Cavaliere Guerreri, pioniere di Pizzotano dell’immigrazione in Brasile dei primi anni Venti. Donna Lucrezia ebbe il compito di sovraintendere ai lavori della navata: ne fu lusingata, anche se la sua salute non le dava modo di essere sempre presente. La sua collaborazione fu determinante, quando l’architetto volle apportare alcune modifiche alle navate laterali a cui don Luigi non voleva dare l’assenso. I lavori vennero ultimati due anni più tardi.

Intanto, l’anno dopo, il 24 febbraio 1922, nasceva il primogenito di Giovanni e Francesca, a cui venne dato il nome Pietro, in memoria del primo fratello di Giovanni, caduto nella grande guerra.
Donna Lucrezia si prodigò per aiutare la giovane sposa, pagando la carrozza che aveva portato la levatrice in paese, comunque tutto andò per il meglio e Francesca presto ritornò al suo ruolo di donna di casa e fedele compagna.


27. LA SCUOLA FASCISTA
L’anno successivo, 1923, con la riforma del ministro dell’istruzione Gentile, a Pizzotano venne riaperta la scuola.
Intanto il movimento dei fasci aveva iniziato a espandersi anche nei piccoli comuni.
Era stato nominato un maestro di ideologia fascista, con il compito di educare, ma la scuola, sotto la sua guida, diventò soprattutto un serbatoio di reclutamento e, negli anni successivi, fu il mezzo privilegiato della propaganda fascista: all’interno delle aule furono imposti simboli del regime e l’insegnamento della cultura fascista, con organizzazioni come i “balilla” e “le piccole italiane”.
Molti, a Pizzotano, le frequentavano volentieri, perché oltre alla tessera ricevevano una divisa, ma soprattutto perché, durante i mesi invernali, l’opera fascista distribuiva l’olio di fegato di merluzzo, latte e pane, che aiutavano i bambini a sopportare meglio il freddo.
Ogni grado di istruzione era assoggettato allo stato fascista, le associazioni religiose erano state soppresse, e persino le preghiere erano intrise dei temi cari al regime.
Questo sconvolgimento educativo turbava molto l’equilibrio di donna Lucrezia, che confidò il suo malessere al confessore, don Luigi.
“Non è questa la scuola che avrei voluto per i miei ragazzi,” disse.
Il parroco, pur condividendo il suo pensiero, non poteva manifestarlo apertamente.
“La fame è tanta,” le rispose. “Non si può privare la popolazione dei viveri che lo stato fascista garantisce. Questo significherebbe affamarla e gettarla nella più cupa disperazione.”
Tuttavia, nella successiva omelia domenicale, don Luigi assunse il ruolo di difensore dei diritti dei cittadini e di una libera educazione religiosa.
Si creò immediatamente un clima di tensione, a causa delle reazioni da parte dei parrocchiani più fedeli al regime.
Fu questo l’inizio di una serie di contrasti e dissensi più o meno gravi, che caratterizzarono i rapporti tra il parroco e la popolazione.
Nella comunità si venne a creare una insanabile frattura, di cui fu informata la curia.
Donna Lucrezia si sentì responsabile, e per rimediare scrisse una lettera al vescovo.

Vostra Eminenza Eccellentissima,
dopo l’epilogo delle vicende avvenute a Pizzotano, di cui mi sento in parte responsabile, credo che la dignità dell’abito sacerdotale del nostro parroco sia stata brutalmente offesa e che abbiano prevalso iniquità e infamia.
Confido che Vostra Eminenza, in nome di una Giustizia più alta di quella umana, voglia risolvere la questione a favore dello stesso.
Vi bacio la mano e mi dico di V.E. devotissima.
Lucrezia Magistris.

28. BRUTALE DISTACCO
Nel frattempo, anche se con molte difficoltà, don Luigi continuava a svolgere a Pizzotano il ruolo di sacerdote.
Per distogliere donna Lucrezia da ogni pensiero negativo e da tutte le calunnie che infierivano contro di lui in quel periodo, la coinvolse nella formazione a Pizzotano di un nucleo clandestino dell’Azione cattolica, dedicato particolarmente alla Gioventù femminile: un movimento compatto e combattivo, aperto alle “conquiste” apostoliche. Insieme iniziarono a scrivere volantini e libretti, da far circolare tra le iscritte, sotto forma di raccolte di canti e preghiere.
Questo, però, portava don Luigi e la signorina a trascorrere lunghe ore insieme, e quando Francesca, dopo la recita dei vespri, ritornava con il piccolo dal suo Giovanni, il parroco si fermava ancora da donna Lucrezia, anche fino a tarda sera.
Crebbero i pettegolezzi nelle botteghe e nella piazza, e ciò diede modo ai nemici del prete di diffondere contro di lui una calunnia infamante. Don Luigi, pur essendone a conoscenza, continuava a svolgere il suo ministero.
Una sera, però, nell’osteria di Ciccuzzu, il pescivendolo Peppino, dopo un bicchiere di troppo, iniziò a sbandierare la presunta relazione tra il prete e la signorina.
Tra i presenti, un personaggio in vista del paese, che contava molti amici per essere stato Podestà nel passato, escogitò un piano ben architettato per sbarazzarsi di quel prete scomodo, che ormai, secondo il suo dire, pensava esclusivamente a donna Lucrezia e a impadronirsi dei suoi averi.
Bisognava essere compatti e convincere una parrocchiana, dietro il compenso di una capra, a dichiarare davanti al vescovo di essere oggetto di particolari attenzioni da parte del parroco.
Giovanni, che si trovava nell’osteria, quando rientrò a casa dalla moglie raccontò l’accaduto, e Francesca la mattina seguente riferì ogni cosa alla signorina.
Donna Lucrezia, affranta e umiliata, proruppe in un grido.
“È un’infamia! Non posso credere che la gente del mio paese, a cui don Luigi ha fatto solo del bene, ora faccia prevalere le maldicenze contro di lui, non è possibile!”
Eppure, pochi giorni dopo, la donna in questione venne accompagnata in diocesi.
Il vescovo, tuttavia, non prestò fede alle sue dichiarazioni, ma si rese conto che la presenza di don Luigi a Pizzotano era divenuta incompatibile con il ministero sacerdotale.
Per risolvere il problema, indusse il parroco a dimettersi dalla parrocchia per assumere l’incarico di una missione in Brasile.
Così, l’11 maggio 1924, don Luigi salutava i pochi parrocchiani che gli erano rimasti fedeli e partiva tra rimpianti e proteste.
Donna Lucrezia non poté far nulla per impedire quella decisione; persino il conte con Elvira avevano interpellato le autorità ecclesiali, ma tutto era stato inutile.
Dopo quell’ultimo distacco, ritornò il buio nella mente di Lucrezia.
Francesca faceva il possibile, ma con la nascita del secondogenito, Biagio, le ore da dedicare alla signorina erano sempre meno; non mancava, però, di farle visita tutte le sere, prima del suono delle campane, e l’accompagnava in chiesa per la recita dei vespri.
Fu proprio in un tardo pomeriggio del luglio 1924 che Lucrezia le chiese di raccontale come avesse fatto la zia Angelarosa a lasciare i cinque figli in balia di un marito ubriacone per andare ad annegarsi nella “fontana della canna”.
Si trattava di un luogo non molto distante da Pizzotano, dove la foce di un fiumiciattolo generava un mulinello d’acqua che, a dire di molti, risucchiava le persone, trascinandole fino al mare aperto.
Francesca rimase sorpresa da quella domanda. La sorella di sua mamma aveva fatto quella scelta solo pochi mesi prima, per porre fine alla violenza che il marito le infliggeva ogni sera davanti ai figli, perché sempre ubriaco.
“Non mi ammazzare davanti a loro,” gli aveva detto, dopo aver subito per l’ennesima volta ogni sorta di maltrattamenti. “Domani mattina trovo io la via per farla finita, lontano da qui.”
Donna Lucrezia ascoltava e annuiva, mentre nei suoi occhi traspariva la tristezza.
“Si è fatto tardi stasera, per i vespri,” disse a Francesca, “porta a casa il mio breviario e stasera prega tu anche per me, io mi sento stanca.”
“Come volete signorina, vado a casa: Giovanni e i piccoli sono soli, con gli uomini non c’è da fidarsi.”
Afferrò il breviario, all’interno del quale un foglio scritto a caratteri minuti e datato 10 gennaio 1901 faceva da segnalibro.
“Buonanotte, donna Lucrezia” le disse, e chiuse la porta dietro di sé.

29. SENZA RITORNO
Il mattino seguente, il sole era già alto quando Francesca con il piccolo tra le braccia e Pietro aggrappato alla sua gonna, bussò all’uscio della signorina; donna Lucrezia quel giorno era più strana del solito e solo la vista dei bambini riuscì a farla sorridere quel tanto da rendere meno pesante l’aria che si respirava in casa.
Francesca aveva riportato indietro il breviario, ma Lucrezia non volle tenerlo.
“È tuo,” le disse, “tienilo e prega anche per me, io farò un viaggio, andrò a Napoli per un po’, dalla mia amica Elvira, perciò non cercarmi.”
“Spero mi darete notizie e che vi ricordiate di scrivermi di tanto in tanto, io lo farò,” rispose Francesca.
“Sicuramente! Ora torna pure a casa e non preoccuparti più per me.”
“Torno stasera per i vespri?” ribadì la giovane sposa.
“Resta con i tuoi figli, stasera nel tardo pomeriggio sarò già partita.”
Un bacio ai piccoli e un abbraccio a Francesca fu l’ultimo saluto che donna Lucrezia fece alla sua gente.

Qualche mese più tardi, a Pizzotano, arrivò don Vincenzo, il nuovo parroco. Giovane sacerdote pieno di entusiasmo e fervore religioso, fece subito presa sulla popolazione in virtù delle sue non comuni doti di mente e di cuore e della sua disponibilità ad assistere, aiutare e proteggere i più deboli e più bisognosi.
Don Vincenzo conosceva bene don Luigi e i motivi per cui era stato allontanato. Al suo ingresso in parrocchia, aveva pubblicamente dichiarato la sua amicizia con lo stesso e la corrispondenza che li legava, e tanti furono contenti quando dallo stesso pulpito don Vincenzo portò i saluti del vecchio parroco.
Francesca, non avendo ricevuto nessun cenno di scritto da donna Lucrezia, chiese a don Vincenzo, vista l’amicizia che lo legava a don Luigi, di informarsi della signorina.
Il parroco lo fece, specificando che la donna era partita da alcuni mesi per Napoli, rassicurando Francesca di un suo scritto e la poverina non aveva ancora ricevuto niente.
Ci volle circa un mese, perché la risposta di don Luigi arrivasse tramite un telegramma. 

Rev.mo don Vincenzo,
ho avuto modo di contattare i conti Amodei, la signorina donna Lucrezia non è mai arrivata a Napoli e loro non hanno sue notizie da mesi. Spero in una risoluzione e aspetto risposta. Suo sempre amico don Luigi.

Il contenuto del telegramma fece il giro del paese: nessuno, dunque, sapeva nulla della signorina.
Francesca era costernata e, cercando di tornare a quell’ultima sera, un pensiero le balenò nella mente: quando donna Lucrezia le aveva chiesto della “fontana della canna” non poteva essere stata solo una coincidenza.
Riferì quella sua ansia a don Vincenzo, che allertò le autorità competenti. Furono fatti vari sopraluoghi, ma nell’immediato nulla fu ritrovato intorno alla foce del fiume.
La vicenda di donna Lucrezia rimase un mistero che si raccontava anche nei paesi vicini.
Si fecero molte congetture: che fosse andata a vivere nel collegio che l’aveva ospitata quando studiava, si raccontò che fosse ritornata nel brefotrofio dove era stata guarita, qualcuno insinuò persino che fosse partita per Parigi, a ritrovare un vecchio amore che lo zio non le aveva permesso di sposare.
Qualche tempo dopo, però, un pastore disse di aver trovato una corona legata alle fronde che circondavano la foce della fiumara: forse donna Lucrezia aveva voluto lasciare un segno del suo passaggio, con il rosario che era sempre stato la sua forza.
Nel circondario si continuò a parlare di lei per tanti anni, e a Pizzotano se ne parla ancora oggi.
La sua memoria è diventata “il racconto di un secolo.”

 

 

Autore: Rosalinda De Francesco
Data: 27 dic 2022