UN POMERIGGIO INVERNALE
È un pomeriggio invernale, nel periodo delle vacanze natalizie.
La neve ha già coperto i tetti e le strade del villaggio di montagna, dove Luisa trascorre i fine settimana insieme al marito e ai figli; ha continuato a nevicare per tutto il pomeriggio. I bambini hanno voluto uscire, ci sono tutte le condizioni per rotolarsi nel bel manto candido e sempre più spesso; Luisa ha pensato di unirsi ai loro giochi e scaricare la tensione accumulata nella settimana di lavoro, accudimento della casa, compiti da seguire, cartelle da preparare… Sarebbe bello tornare piccola, rotolarsi nella neve, danzare con essa come una funambola.
In fondo, però, non ha voglia di uscire: tutto quel biancore le fa venire in mente la purezza, l’innocenza, ma le infonde anche un senso di tristezza e solitudine, una specie di bisogno di affetto. Stesa sul letto nel suo pigiamone felpato, non riesce a rilassarsi come vorrebbe. Si alza, infila due paia di calze di lana, perché ha freddo ai piedi. Scosta le tende e apre la finestra: una brezza profumata entra nella camera insieme al magnifico silenzio che accompagna le grandi nevicate.
Luisa torna a letto, si tira le coperte fino al naso e lascia scorrere i suoi pensieri alla sua giovinezza, quando viveva spensierata in quel piccolo paese dove, tutti gli inverni, cadeva tanta neve da bloccare le strade e nascondere le forme e i contorni delle case, trasformandole in un paesaggio quasi irreale. Le poche auto che appartenevano ai benestanti si fermavano. Le persone liberavano le proprie case dalla neve e formavano passaggi per arrivare al centro della strada, dove gli operai del Comune, con le pale, tagliavano percorsi per raggiungere i luoghi pubblici e i negozi. I giovani accoglievano con entusiasmo quelle giornate, in cui le scuole non funzionavano ed era permesso oziare senza nascondersi agli adulti.
Quel giorno si erano incontrati in piazza e avevano deciso di andare in un grande casolare che apparteneva a Walter, un ragazzo del gruppo benestante. La difficoltà di raggiungere il casolare alle porte del paese alimentava il desiderio di andarci. Erano circa dieci, tra maschi e femmine; si conoscevano tutti, frequentavano la stessa scuola, anche se appartenevano a fasce sociali diverse.
Luisa era figlia di contadini, ma a scuola era apprezzata dagli insegnanti perché era intelligente, studiosa e attenta ai bisogni degli altri. Indossava vestitini semplici che su di lei facevano figura. Semplice, pratica, ma capace di profondi pensieri e sentimenti, si divertiva volentieri con gli amici, senza calcoli e secondi fini.
Walter era bello, alto, elegante, estroverso; d’estate portava grandi occhiali da sole Ray Ban, come una specie di distintivo. A quei tempi sognava di diventare un affermato giornalista. Era uno dei pochi che avessero la fortuna di andare in vacanza, e non perdeva occasione per parlare agli amici dei viaggi fatti con i suoi genitori. Raccontava meraviglie delle città che aveva visitato, di monumenti storici conosciuti dagli altri solo attraverso i libri; raccontava di paesaggi fiabeschi, tramonti sul mare, incontri sulle spiagge. Tutti erano interessati ai suoi racconti, soprattutto le ragazze, che amavano sognare a occhi aperti mete lontane, luoghi dove vivere in libertà, senza le regole cui dovevano sottostare in paese. Luisa non faceva eccezione.
Nonostante siano passati tanti anni, di quel pomeriggio ha conservato ricordi molto nitidi.
Mi sentivo bella e alla moda quel giorno: indossavo un maglione di lana bouclé con il collo alto che tiravo su fino al mento, pantaloni aderenti infilati negli stivali e maxi-cappotto. Speravo che i miei occhi e i capelli lunghi e neri facessero un bel contrasto con il bianco della neve.
Decidemmo di avviarci verso il cascinale senza farci notare in paese, così ci dividemmo in due gruppi e prendemmo strade diverse. Uno dei ragazzi aveva portato una pala per sgombrare la neve ammucchiata davanti al portone.
Conoscevamo quel posto; da parecchi anni era diventato il ritrovo dei giovani, per stare in compagnia, parlare, divertirsi, ballare e tanto altro. Le travi a vista, il soffitto spiovente, le scale larghissime, la polvere e le ragnatele accumulate nel corso degli anni, rendevano quel rifugio poco confortevole e un po’ sinistro, ma era tutto nostro: non arrivava nessuna mamma a “sbirciare” cosa stessimo facendo, e ciò lo faceva apparire meraviglioso, affascinante. Alcune scale di legno scendevano nella parte interrata della struttura, che si espandeva, senza una fisionomia precisa, oltre la costruzione principale e comprendeva anche le vecchie stalle e gli edifici dei mezzadri. Da anni disabitato, il cascinale era preso di mira da scorribande di ragazzi o ladruncoli che cercavano qualcosa da portar via, anche piccoli oggetti di poco valore, rimasti nei cassettoni o nei vecchi armadi, nelle madie che una volta servivano per riporre il pane.
La porta si aprì come sempre scricchiolando e dentro faceva più freddo che fuori. Aveva un non so che di misterioso quella casa: ci andavamo anche per raccontare storie di fantasmi, organizzare improbabili “sedute spiritiche”, di cui Nunzio era il fautore. Stavamo seduti per terra, intorno a un tavolino, in cerchio. Nessuno si muoveva, formavamo una catena attraverso il contatto di mignolo e pollice, che sembravano attaccati con la colla: non si dovevano staccare per nessuna ragione. Durante il “rituale”, dicevano i più “esperti”, si doveva stare immobili, altrimenti qualcuno avrebbe potuto morire. Nunzio era bravissimo a evocare gli spiriti: “Se ci sei batti un colpo..” e, dopo un po’, si sentivano dei colpi sotto il tavolo… Il panico tra noi ragazze! Non avevamo mai visto fantasmi in quel cascinale, ma eravamo tutti così suggestionati che ne avvertivamo la presenza nella stanza. Walter ci aveva raccontato che una ragazza si era tolta la vita per un amore non corrisposto. Dopo la sua morte, molti l’avevano vista apparire in una veste bianca, distrutta dal dolore.
Quella sera, dopo un po’, tutti avevano voglia di ballare, anche perché faceva freddo. Cominciammo ad appoggiare la puntina del giradischi nei solchi dei 45 giri e la festa incominciò.
Walter, con il sorriso da rubacuori e l'aria scanzonata, si reputava padrone della situazione: sicuro del fascino che tutte gli riconoscevano, quando si ballava, cambiava spesso dama. “Vuoi ballare?” chiedeva, facendo un inchino da cavaliere dell’ottocento.
Quella sera, invece, facevamo coppia fissa: all’inizio ne fui meravigliata, ma poi, inebriata dal suo modo di fare, mi lasciai andare. Ci scatenavamo, dimenandoci e ancheggiando al ritmo del twist o dello shake, quando poi arrivava un lento, ci esibivamo, guancia a guancia, nel ballo della mattonella, abbandonandoci a occhi chiusi al ritmo melodico della canzone. Walter, senza curarsi degli sguardi degli altri, mi stringeva sempre più a sé; provavo a ribellarmi ma non riuscivo, il mio corpo era attratto dal suo, le luci soffuse e le voci dei nostri cantanti preferiti mi procuravano ebbrezza, stordimento. Mi lasciavo trascinare in un’atmosfera coinvolgente e intensa: sembrava che, oltre a noi, non esistesse più nessuno.
“Vorrei che tu conoscessi tutto il casolare” mi disse Walter a bassa voce. “Di sopra ci sono stanze segrete, ricche di storia, di arredi e oggetti della mia famiglia.”
Con un gesto sensuale la sua mano s’intrecciò alla mia e ci ritrovammo insieme al piano superiore. Dopo aver attraversato un lungo corridoio e molte stanze vuote, ci fermammo in un salotto con un grande divano coperto da un telo bianco, liso e un po’ ingiallito. Lui mi fece sedere e mi attrasse a sé. Avrei voluto andarmene, tornare con gli altri, ma non ero capace di alzarmi. Continuavo a essere attratta dal suo corpo, anche se ormai ero consapevole delle sue intenzioni e del fatto che non volevo abbandonarmi: non era ancora il momento per me, volevo ancora aspettare per scegliere l’uomo a cui donarmi la prima volta, ma mi sentivo soggiogata, dominata. Walter mi tolse il maglione, mi baciò il collo, mi slacciò il reggiseno, mi fece girare e segnò con la sua lingua il profilo dei miei seni. Volevo protestare, ma il corpo me lo impedì, ero completamente succube delle sue mani che mi accarezzavano lentamente. Poi lui mi fece scivolare i pantaloni fino alle scarpe. Allora protestai, mi alzai, volevo scappare, ma lui mi prese per i fianchi e mi portò di nuovo sul divano.
“Abbandonati, Luisa” disse, “non pensare a niente…” Nel frattempo affondò di nuovo la bocca sulla mia, esplorò tutte le parti del mio corpo, mi tolse le mutandine e io mi misi a gridare, ma lui, superando le mie grida e le mie lacrime, con forza quasi brutale si buttò su di me e non mi diede più la possibilità di ribellarmi. Fece entrare la sua carne nella mia, mi spinse e poi mi spinse ancora, poi abbandonò il suo corpo contro il mio e quasi non riuscivo più a respirare. Io piangevo di dolore e di sollievo, pensando che ormai era tutto finito. In silenzio, pulii il mio sangue, mi rivestii e tornai in mezzo agli amici. Sarei voluta andare a casa da sola, ma il timore di aggiungere vergogna al dolore mi diede la forza di tornare insieme al gruppo.
Ancor oggi sento l’umiliazione della violenza, mai denunciata né raccontata: mi passa sul corpo con un brivido, ogni volta che ci penso. Anche quando sono molto felice, anche adesso mi accompagna, come una punizione per non aver saputo reagire, scappare.